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[L’intervento] Massimiliano Atelli (procuratore regionale Corte dei Conti): «Urgente il Recovery Fund. Serve un piano nazionale fatto di scelete pubbliche da prendere rapidamente per realizzare in tempi stretti risultati concreti. Ecco come attuarlo»

L’infittirsi e l’incalzare del dibattito sul Recovery fund non deve far deviare la discussione – che inizia a tradire l’ansia per un tema, quello della utile gestione del tempo a disposizione (poco), che non è mai stato fra le nostre massime specialità – dalla linea retta. 

Pensare che la sfida che il Next Generation Eu pone sia solo quella di trovare idee convincenti (perché, si badi, la Commissione va convinta a finanziarci, e l’arrivo dei circa 209 mld, di cui tanto si parla come fosse cosa già fatta, non è affatto scontato), sarebbe cadere nel consueto vizio del pensiero frazionistico: isolare un singolo frammento (per quanto importante) del problema, e concentrare tutte le attenzioni e le energie solo su quello. Sganciato da tutto il resto.

Non è così. Non si può fare così. E’ noto che, ai fini dell’attivazione del Recovery fund, ogni Stato deve presentare un piano nazionale di riforme (2021-2023) alla Commissione europea. All’Italia, in base agli accordi politici raggiunti fra Stati, toccheranno 209 miliardi: circa 81, a fondo perduto; gli altri, circa 128, in prestiti. 

Non esistono, tuttavia, “pasti gratis”: Recovery fund non è un programma di aiuti diretti al singolo Stato, ai cittadini o alle imprese, ma ricalca, piuttosto, lo schema dei “Fondi Strutturali Europei” (la cui esperienza, nel nostro Paese, è per vero stata tutt’altro che brillante). 

Anche in questo caso, pertanto, a livello UE sono fissati obiettivi generali (che gli Stati nazionali dovranno perseguire, concretamente ed efficacemente, con azioni idonee) destinati a soddisfare le “raccomandazioni europee” su:

  • sanità
  • tutela occupazione
  • spese causate dalla pandemia
  • digitalizzazione e ambiente
  • sistema amministrativo e giudiziario
  • politiche di bilancio.

I fondi non saranno erogati in unica soluzione, ma progressivamente.

E se durante l’erogazione uno o più Stati membri del Consiglio dovesse far registrare gravi scostamenti dai target intermedi del piano presentato, sarà messa in discussione l’erogazione dei fondi successivi.

Trovare buone idee, poi farne dei progetti, quindi sintetizzarli alla scala di “piano”, e, infine, convincere la UE, è essenziale.

Ma ciò non ci condurrà lontano, senza – in parallelo – una discussione e un’azione, seria e profonda, sul ripensamento di alcuni meccanismi e processi decisionali propri del nostro sistema.

Perché quanto inserito nel piano nazionale non potrà essere solo predicato, ma andrà effettivamente praticato. E tutto si dovrà compiere nei tempi, brevi (6 anni), imposti dalle precise regole di ingaggio del Recovery fund.

Questa impostazione mette al centro della scena il tema evergreen della scelta pubblica, ma in una chiave rinnovata che la rende ancor più strettamente legata al fattore tempo.

Detto altrimenti, il pilastro dell’operazione Recovery fund è, Stato membro per Stato membro, la scelta pubblica da prendere e realizzare rapidamente, per raggiungere risultati concreti (in quanto, anzitutto, tempestivi). 

Fare (cose concrete e utili), fare presto, e tuttavia non fare frettolosamente.

Questo è, al fondo, il senso ultimo della sfida che abbiamo davanti.

L’indirizzo, netto, ha preso corpo anche nelle ultime riforme legislative (DL semplificazioni), che si sono spinte sino a modificare il Codice dei contratti pubblici introducendovi, fra l’altro, una previsione (<<La mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto….>>) che – nel dichiarato intento di sgomberare il campo da esitazioni, titubanze, pensose torsioni burocratiche, cammarille, e molti altri antichi vizi dell’agire amministrativo – rispolvera e rilancia una categoria (insieme, concettuale, politica e giuridica), un tempo tabù, qual’è quella dell’ “interesse nazionale”.

Sancendo che esiste, oggi, anche un <<interesse nazionale>> ad arrivare, rapidamente, al risultato finale, concreto e utile, cui tende un contratto con parte pubblica.   

Per mettere davvero il nostro sistema in condizione di fare rapidamente cose concrete e utili, dentro la cornice del Recovery fund, diviene però essenziale riapprofondire e ripensare, nei limiti del necessario, tre temi (non gli unici, ma di certo fra i principali) che vanno dritti al cuore della decisione pubblica (dalla più piccola alla più grande).

Occorre farlo, per sviluppare soluzioni congruenti.

Il primo tema è quello delle condizioni “ambientali” nelle quali viene presa, più spesso, la decisione pubblica.

Nel nostro tempo, da questo punto di vista, si è imposto all’attenzione generale il fenomeno della “paura della firma”, che, a torto o a ragione, si pone, in ogni caso, come indicatore dell’esistenza di un problema, e non può essere ignorato.

Il recente DL semplificazioni è intervenuto sul punto, introducendo una moratoria sul danno erariale da colpa grave, per un verso, e riducendo lo spettro applicativo del reato di abuso d’ufficio, per altro verso.

Ricette drastiche, che muovono dall’assunto che quella paura sia, più propriamente, la paura di non riuscire a dimostrare la propria innocenza (in sostanza, di non essere assolti), all’esito del processo, sia esso contabile o penale.

E’ una soluzione, ma non è detto che sia “la” soluzione.

Io credo infatti che la paura che paralizza la firma sia, oggi come ieri, un’altra: non quella di non “uscire bene” dal processo, ma quella, invece, di entrarci.

Se è così, la soluzione va cercata andando oltre i rimedi apparentemente efficaci, ma in realtà semplificatori. In particolare, creando certezze anticipate (con più pareri, per un verso, e più controlli, per altro verso, rapidi ed efficaci) che risparmino all’azione amministrativa la zavorra, a danno del sistema Paese e delle sue necessità, di insicurezze e titubanze.  

Il secondo tema è quello della gestione del dissenso nei confronti o nell’ambito delle scelte pubbliche.

In primo luogo, il riferimento è al dissenso che trova occasione di espressione più spesso nei territori, avverso interventi di infrastrutturazione (dalle reti viarie agli impianti del ciclo rifiuti), e declinato, nei modi consentiti (per legge o in giudizio), nelle forme tipiche dell’attivismo civico. In queste situazioni, il deficit di una attenta ma ferma capacità generale di ascolto da parte degli apparati pubblici, per un verso, e l’assenza di una seria regolazione dello strumento del debat public, da definirsi sulla scorta delle migliori esperienze straniere, per altro verso, si fa sempre più avvertita.

In secondo luogo, il riferimento è al dissenso che paralizza le decisioni pubbliche quando per la loro adozione è prevista la partecipazione necessaria di più livelli di governo, o, a fortiori, quando quella partecipazione è destinata ad assumere carattere paritario (si pensi alla soluzione remediale delle “intese”, sulla carta congruente, ma in concreto troppo spesso destinata a risolversi nel riconoscimento, un po’ paradossale, di un potere di veto ad amministrazioni governate da maggioranze di opposto segno politico e poco vocate, di riflesso, alla massima collaborazione interistituzionale).  

Infine, quando la decisione pubblica è presa, si pone il tema della sua irretrattabilità.

Che il diritto positivo ha, in sostanza, già introdotto, perfino in caso di illegittimità della scelta pubblica (si pensi alle aggiudicazioni erronee nel campo degli appalti, o ai provvedimenti amministrativi non legittimi adottati da un congruo lasso di tempo), in nome della precedenza che si è ritenuto di dare – sul piano legislativo, in nome di un interesse sistemico – al valore della certezza del diritto.

Un valore, questo, che crea punti di riferimento per gli agenti persone fisiche o giuridiche, orientando comportamenti in direzioni che si proiettano in avanti nel tempo, in forma stabile.

Una scelta di campo, compiuta da tempo nel nostro ordinamento, che è però rimasta un po’ in sospeso e in bilico (in definitiva, irrisolta), dovendo convivere con spinte, pulsioni, e norme, inclini, viceversa, a criminalizzare (quando non anche a demonizzare sul piano morale) conflitti d’interesse anche solo potenziali, traffici di influenze a volte impalpabili, percezioni della corruzione anziché condotte realmente devianti, danni reputazionali più asseriti che sentiti, nella logica di una cultura di fondo – ispirata, a bene vedere, al sospetto e alla diffidenza – che si pone agli antipodi rispetto a quel fare cose utili e concrete, rapidamente, cui la sfida del Recovery fund sollecita il nostro complesso Paese.

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