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[L’analisi] 100 giorni dopo, perché la guerra all’Europa resta il fallimento per Putin

Cento giorni di guerra. Putin credeva ne bastassero tre. Tre giorni per far cadere Kiev, assorbire l’Ucraina, arrivare ai confini della Nato in Polonia. Forte così, grazie ad un’operazione militare speciale rapida e limitata nel tempo, di aver garantito alla Madre Russia uno stato cuscinetto sotto la propria egida che la proteggesse dalla NATO. Più vicina a quell’Europa democratica e liberale che vuole disarticolare. E invece. E invece Il tempo inesorabile scorre. E l’operazione militare è una vera e propria guerra. Novecentesca. Con l’aggravante della minaccia nucleare.

Dopo cento giorni seppure sul campo, dopo la caduta del battaglione Azov a Mariupol, sembra che tatticamente Mosca stia vincendo la battaglia del Donbass, ma dal punto di vista strategico la Russia si è ricacciata, come ciclicamente è accaduto nella sua storia imperiale, in un presente economico e geo-strategico fuori dalla contemporaneità che le offre l’Occidente. 

La Polonia per i carri armati russi è lontanissima. Kiev non sarà espugnata e presto o tardi diventerà l’avamposto dell’Occidente nell’Europa orientale anche dal punto di vista formale con l’ingresso nella Nato e nell’Unione Europea. Una generazione di ragazzi ucraini crescerà nel ricordo di un’esperienza di vita viscerale e atroce che alimenterà l’odio contro un invasore violento e criminale. Parallelamente sul fronte nordico la Russia si è indebolita. Due Nazioni neutrali, Svezia e Finlandia, hanno fatto richiesta di entrare nella Nato. E nonostante le ritrosie turche l’iter si concluderà con la loro adesione.

Presto dunque il confine finlandese sarà per Mosca una nuova cortina di ferro lunga 1.300 chilometri con un paese tecnicamente non più neutrale, ma convinto dell’ostilità della Russia e protetto dall’articolo 5 del patto atlantico. Un paese che della neutralità aveva fatto un dogma e che oggi rinnega. Una scelta preparata da lungo tempo, armandosi al ritmo del 2,3% del proprio PIL annuo. 

La Germania poi, nonostante le ritrosie del nuovo cancelliere socialdemocratico e delle grandi società industriali che non intendono rinunciare al gas russo, ha comunque rotto un altro tabù a seguito della guerra di invasione russa. I tedeschi tornano a riarmarsi con un investimento di 100 miliardi annui e questo di certo non può far piacere a Putin. Anche la Cina, per molti consapevole e favorevole all’operazione militare di Putin, si ritrova spiazzata dagli effetti indesiderati del conflitto. La guerra per l’egemonia mondiale con gli Stati Uniti si è retta in questi decenni sulla forza di produzione nata dalla dislocazione a Oriente dei siti produttivi delle multinazionali occidentali.

Se davvero gli USA rendessero concreta e reale la decisione di ritirarsi e riportare le produzione dentro il perimetro delle nazioni amiche per la Cina si aprirebbe una fase economica nuova e piena di insidie. Aver strappato l’Orso russo dall’orbita occidentale, costituendo un asse orientale più strutturato e ufficialmente alternativo all’America e ai suoi alleati e ai valori liberali e democratici, forse, per Pechino non è poi stato così conveniente. 

L’Europa, ancora, si barcamena fra slanci di principi ideali, ottimismo della ragione e realismo decisionale che sotto i veti di Orban, ridimensiona ogni velleità di essere in grado di esprimere una forte autonomia sulla scena geo-strategica e militare mondiale. Eppure Bruxelles ha almeno preso coscienza che sul proprio confine orientale non c’è più un partner con il quale collaborare, ma una minaccia reale per il proprio benessere presente e futuro. Uno stato ostile dal quale proteggersi, dal quale non essere più succube sul fronte energetico. Un nemico dichiarato il cui obiettivo è convincere i cittadini europei che la democrazia liberale e le società libere e aperte sono una parentesi della storia da chiudere il prima possibile. 

La stessa Russia, cento giorni dopo, nonostante bruci i corpi dei propri ragazzi morti in guerra in forni crematori mobili, senza restituirli alle famiglie disperse nei nei mille villaggi dell’oriente lontani migliaia di chilometri dalla capitale Mosca, si trova a fare i conti con uno scenario imprevisto. Il blitz del 2014 in Crimea non è stato replicato. Le sanzioni occidentali hanno portato indietro le lancette dell’economia russa di oltre trent’anni. Gli introiti della vendita di gas, anche grazie alla strategia dei pagamenti in rubli a cui alcuni stati si sono piegati, sono destinati non alla società russa, ma alla guerra il cui costo giorno dopo giorno assottiglia il potenziale militare russo. 

Gli USA di Biden hanno deciso d’istinto, quando Zelensky ha rifiutato di fuggire, di giocare sul campo ucraino una battaglia decisiva per difendere il proprio modello, ancor prima che economico, ideologico. Per il Presidente democratico la battaglia con Putin non riguarda soltanto un dominio militare, bensì la supremazia dei valori dell’Occidente contro le dittature e le autocrazie. Putin ha attaccato Kiev per sferrare un colpo letale all’idea che l’Occidente rappresenta nel mondo. Può apparire manicheo. Eppure credere che questa strenua difesa di un popolo lontano da Washington sia una copertura per legittimare una rinnovata contrapposizione tra Russia e America, fra il blocco occidentale e questo nuovo blocco non più comunista, ma comunque antidemocratico e anti-liberale, è un grave errore. 

l’Italia resta sullo sfondo di una vicenda dove i protagonisti principali chiaramente sono altri. La legittimazione internazionale viene garantita sulla carta dalla fermezza dei nostri massimi esponenti istituzionali: Draghi e Mattarella. Ma chi si addentrasse a leggere le cronache politiche nostrane resterebbe inorridito dalla ridicola sequela di prese di posizione dei nostri leader. La corrente dei pacifisti putiniani pronto a correre a Mosca per farsi garanti della resa degli ucraini o a sfiduciare il governo sulla scelta precedentemente avvallata di fornire armi a Kiev ridisegnano un nuovo scenario di alleanze politiche per il futuro turno elettorale. Se nel febbraio 2023 la guerra non fosse finita o se le scelte politiche che vengono prese in questi giorni determinassero l’esito in un senso o nell’altro del conflitto sarebbe difficile mantenere le attuali alleanze tra partiti che oggi hanno posizioni diametralmente opposte.

Infine la nostra opinione pubblica. I morti, la devastazione dei bombardamenti sulle città ucraine, le incursioni militari trincea dopo trincea, periferia dopo periferia, palazzo dopo palazzo iniziano a suscitare meno interesse da parte dei telespettatori occidentali. La guerra scivola nei titoli dei Tg. Le edizioni speciali si chiudono. La routine della comunicazione globale che consuma tutto e in fretta sta già producendo il suo effetto assuefazione. Ora, poi, c’è l’estate. Della guerra se ne continuerà a parlare certo. Occorrerà però arrivare al ducentesimo giorno di guerra, quando gli effetti sulle nostre economie ci costringeranno ad affrontare l’inverno del nostro scontento, per capire che la mancata coerenza  ai valori atlantici è il principale pericolo per destrutturare le nostre ancora prospere società europee. 

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