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La strategia sulla sanità parte da un rafforzamento del Servizio Sanitario Nazionale

La crisi innescata dalla pandemia di Covid-19, che ha chiesto un tributo tanto alto alla Professione medica in termini di lavoro, sacrifici, vite umane, può ora veramente diventare un’opportunità per cambiare le nostre strategie sulla sanità, rafforzando e rinnovando il Servizio Sanitario nazionale.

Questo richiede un grande impegno in termini di investimento sui giovani, sui professionisti, sul capitale ma anche sulle strutture, sugli ospedali. Richiede, soprattutto e prima di ogni altro intervento, una nuova concezione, una nuova organizzazione dell’assistenza, che consenta di far fronte a una pandemia senza stravolgere gli ospedali e mettere a rischio le cure ordinarie.

Tra le priorità, metterei senz’altro lo sblocco del turnover, con un incremento e un ricambio generazionale del personale ospedaliero, l’aumento dei medici convenzionati sul territorio, l’azzeramento dell’imbuto formativo. Secondo l’ultimo rapporto “State of Health in the EU”, più della metà dei nostri medici in attività ha un’età di oltre 55 anni; anche secondo i nostri dati l’età media è 51 anni, il che ci rende il paese europeo con i medici più anziani, visto che l’età media in Europa è di circa 38 anni.

E mentre i sindacati medici annunciano una carenza pari a 50mila tra specialisti e medici di medicina generale nei prossimi cinque anni, il numero dei laureati in Medicina ha superato le 20mila unità, a fronte di undicimila accessi previsti alle scuole di specializzazione. Mentre ancora non si conosce il numero delle borse per il corso in medicina generale, che noi riteniamo debbano essere mantenute, come negli ultimi due anni, a 2000.

Sono poi necessari investimenti sull’edilizia sanitaria, che permettano la costruzione di nuovi ospedali, pensati per affrontare una crisi pandemica, con la separazione dei percorsi ‘sporchi’ e ‘puliti’ per i casi sospetti di Covid-19 e gli altri pazienti. L’epidemia di Covid-19 ha colto alla sprovvista i nostri ospedali; siamo stati costretti, almeno in una prima fase, a limitare gli accessi al pronto soccorso. Tanto che, anche in seguito, i cittadini, spaventati, non si sono più rivolti al pronto soccorso neppure quando avrebbero avuto, invece, necessità di cure urgenti.

Tanti sono, ad esempio, gli infarti subclinici che i medici di medicina generale e i cardiologi stanno ora rilevando ex post. Siamo stati costretti a tirare su tende per il triage del Covid, e a riconvertire interi reparti, sottraendo risorse di personale e strumentali alle cure delle altre patologie. Questo non deve più accadere.

È tuttavia anche e soprattutto sul territorio che si gioca la vera partita. La Riforma – ter del Servizio sanitario nazionale, la Legge 229/1999, ha ormai più di vent’anni, ha mostrato tutti i suoi limiti e va assolutamente superata. 

In particolare, va superata l’organizzazione del territorio a distretti, a silos, a favore di un’organizzazione dove i professionisti lavorino in team, con un’articolazione flessibile, una capillarità nell’assistenza e una sinergia di competenze. E l’assetto non deve essere verticale, gerarchico, con un generale, ufficiali, soldati semplici. Deve essere orizzontale, con equipe di professionisti che lavorino insieme, ognuno mettendo a disposizione le sue peculiari competenze, a pari livello.

Né deve configurarsi, tra i professionisti ma neppure nei confronti del Servizio sanitario nazionale, un rapporto di dipendenza: questo perché la libera scelta del cittadino sia orientata verso i professionisti e non verso la struttura. Tra gli spunti da salvare della Legge 299 c’è infatti quello della libera scelta del medico, che permette di instaurare quel rapporto continuativo di fiducia che è la base dell’alleanza terapeutica e che mette insieme l’assistenza ‘on demand’, nel momento della malattia, con la visione longitudinale dell’intera storia clinica e di vita del paziente e della sua famiglia, con ricadute positive in termini di prevenzione, di allungamento della vita, di miglioramento delle condizioni di salute. Ora il punto di riferimento dei cittadini devono essere i professionisti, insieme, con le loro competenze: medici di medicina generale, specialisti, infermieri, fisioterapisti, ostetriche, assistenti sanitari, supportati da altre figure di natura amministrativa.

E i professionisti devono essere messi nelle condizioni – a livello di formazione, di aggiornamento, di strumentazione, infrastrutture e organizzazione – di poter fornire ai cittadini, sul territorio, ‘al letto del paziente’ o senza grandi spostamenti, tutti quei servizi, quelle prestazioni che possano migliorare la sua vita e la sua salute.

Penso alla diagnostica di primo livello, da attuarsi con ecografie, elettrocardiogrammi, misurazione della concentrazione di ossigeno, anche in consulto, in loco o tramite la telemedicina, con gli specialisti; alle terapie iniettive, alle vaccinazioni, alle medicazioni, alla fisioterapia e alle terapie riabilitative in genere. Questo serve alle cure primarie: mettere insieme i professionisti, dando loro maggior forza, strumenti più efficaci e potenti. Un processo suggerito anche dall’Ocse e in parte già avviato, che però ha bisogno di un colpo d’ala che ci trasporti nell’era del post-distretto, e metta la firma del Governo sulla Riforma Quater del Servizio Sanitario Nazionale.

 Infine, ma non ultimi per importanza, i liberi professionisti: occorrono misure specifiche che sostengano il reddito, gli investimenti e gli incrementati costi di gestione anche attraverso la riduzione del carico fiscale.

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