Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

In futuro dobbiamo essere più preparati su tre fronti: le protezioni individuali, l’intelligence e la raccolta di dati. Gli aiuti e il nuovo debito che ci accingiamo ad assumere potrebbero essere pericolosi

L’epidemia denominata Covid 19 che si è rapidamente diffusa in gran parte del mondo ha causato lutti e messo a dura prova i sistemi sanitari, ma ha anche causato reazioni sociali e politiche che a loro volta hanno avuto esiti economici consistenti. Non si possono a mio avviso giudicare le diverse scelte attuate dai Governi senza soppesare la paura, l’incertezza e la mancanza di dati in cui queste decisioni dovevano essere prese. Però col passare del tempo, e pur permanendo molte incertezze, si possono (e probabilmente si devono) ricercare le lezioni che gli eventi e le sofferenze di questi mesi cominciano a insegnarci, e trarne lezioni utili per il futuro: è l’unico modo che abbiamo per dare un senso ai sacrifici e alle perdite di questo periodo, ed a mio avviso ve ne sono quattro che mi paiono prioritarie.

La prima lezione è che dobbiamo essere più preparati in futuro almeno su tre fronti: le protezioni individuali, l’intelligence e la raccolta di dati. In molti settori economici si tengono scorte, che hanno un piccolo costo per la collettività, ma permettono di far fronte agli imprevisti. Mi ha molto colpito che non avessimo in ogni regione (e così in molti altri Paesi) una sufficiente quantità di mascherine, camici, guanti, visiere e simili per affrontare un contagio. Se la peste del 1300 mise un secolo a viaggiare dalla Siberia all’Europa, oggi un virus fa il giro del mondo in meno di una giornata.

Forse non possiamo prevedere quali organi colpirà o quali medicine o attrezzature ospedaliere saranno efficaci, ma un primo argine alla sua diffusione (soprattutto attraverso gli ospedali e i medici) sarà sempre quello di avere ampia dotazione di protezioni individuali. Poiché poi le epidemie possono svilupparsi in luoghi in cui l’informazione non è libera, è bene che i servizi informativi siano più attenti a segnalare tempestivamente il pericolo di epidemie: alcuni Paesi sono stati efficaci in questo, altri assai poco. L’altra cosa che occorre in ogni caso di epidemia è una celere ed efficace raccolta di dati attraverso i test.

Nel caso del Covid 19 sono stati messi a punto rapidamente test efficaci, ma la capacità di somministrarli a tappeto è venuta meno, e la raccolta e comprensione dei dati sulla diffusione della malattia, sulla sua letalità e sui sintomi sono stati lenti e a lungo fuorvianti. Forse ancora adesso la raccolta di dati è deficitaria e produce decisioni inadeguate. Se fossimo stati in grado di effettuare sia test in maggior numero, sia analisi a campione che dessero un quadro statisticamente più chiaro i nostri Governi avrebbero potuto prendere decisioni migliori, agire meglio sui focolai, e interferire con l’attività economica in modo più mirato.

La seconda lezione è che il progresso scientifico ed economico (di cui dobbiamo essere coscienti, fieri e grati) ci ha protetto da molte sventure con cui i nostri antenati erano abituati a convivere, ma non da tutte: non siamo ancora, e sospetto che non saremo mai, onnipotenti. Forse dovremmo far riemergere nel dibattito pubblico la constatazione che la natura è più potente di noi e che c’è un po’ di arroganza nel pensare di governarla completamente.

Questo è bene ricordarlo perché l’uomo pur nel suo incessante lavoro secolare, ha sempre temuto la potenza della natura, riconoscendo di non poter controllare ogni cosa e affidando alle divinità, ai miti ed ai riti la consolazione per le catastrofi che ha sempre subito. È solo nell’ultimo secolo che il positivismo ci ha convinti di poter dominare col progresso tecnologico i rischi a cui ci consideravamo inevitabilmente esposti. Così ora viviamo in una temperie culturale che ci illude di avere la forza di eliminare ogni rischio, anche quando purtroppo i rischi permangono. Se accettassimo questo con umiltà, se incorporassimo nuovamente nel nostro modo di pensare l’idea antica che senza rischio non c’è vita, se ci imponessimo la disciplina di scegliere razionalmente il rischio minore e non di illuderci che si possa sopprimere il rischio, non solo prenderemmo decisioni migliori, ma preserveremmo meglio la nostra umanità.

Dico questo pensando che nei primi tempi del contagio le persone si evitavano e temevano di recarsi al lavoro, senza riflettere che i rischi erano anche a casa o in ascensore, e che ognuno di noi ha una responsabilità verso gli altri. Mentre diminuivano rapidamente le libertà individuali molti indirizzavano la loro ira contro chi faceva jogging o portava fuori il cane, senza più distinguere tra prudenza e paura, tra spirito di conservazione e abietto egoismo.

Le spiegazioni ufficiali facevano intendere che le privazioni sociali ed economiche e i controlli su chi usciva a far la spesa o comprare il giornale ci avrebbero portati a contagio zero, mentre oggi sappiamo che questo obiettivo è probabilmente irraggiungibile e che dobbiamo sviluppare strategie di convivenza col virus, che si è ormai associato alla biologia umana e che al momento è più dannoso di altri virus, anche perché il nostro sistema immunitario non ha ancora imparato a difendersi efficacemente.

Questa idea di onnipotenza e rifiuto del rischio ci spinge a scelte autolesioniste non solo di fronte a crisi sanitarie come quella che stiamo vivendo, ma anche nel confrontarci con i temi dello sviluppo economico, delle nuove infrastrutture o del cambiamento climatico: ci sono cose su cui possiamo influire e cose che restano troppo grandi per noi. Trascurare le prime e indirizzare il dibattito politico e culturale sulle seconde è una ricetta arrogante.

La terza lezione, che invero ci giunge ogni giorno da ogni esperienza che facciamo, ma che si rivela sempre una lezione indigesta, è quella sulla complessità della realtà: non possiamo ridurre tutto a slogan, anche se ci offrono l’illusione dell’esistenza di soluzioni semplici. Nel nostro caso abbiamo vissuto per mesi dicendo “la salute prima di ogni cosa”, uno slogan efficace e inoppugnabile, ma che ha involontariamente occultato la complessità delle cose.

Non solo non sapevamo per certo cosa garantisse la salute (né lo sappiamo tuttora), ma sappiamo da sempre che la salute è figlia del benessere, e che se eccezionalmente si può smettere di produrre e si può pensare di vivere consumando i risparmi, non lo si può fare a lungo e il tempo disponibile è tanto più breve quanto più si è indebitati. Il nostro sistema sanitario è pagato dalle tasse sui salari, e tutto ciò che ferma o distrugge il lavoro dopo qualche tempo ci toglierà anche la salute.

Poiché altri Paesi hanno attuato restrizioni più blande o mirate alle attività industriali, con risultati sanitari non peggiori dei nostri, e con vantaggio per il loro sistema economico rispetto a quei Paesi che si sono fermati, dobbiamo dibattere serenamente su queste scelte e prepararci al futuro: se il contagio tornerà a crescere bloccheremo di nuovo l’economia o siamo disposti a studiare altre strade? E anche se volessimo bloccare tutto, possiamo ancora permetterci di fermare le attività produttive, o i costi sociali della povertà che ineludibilmente si crea quando si decide di vivere senza lavorare vanno anche soppesati appieno? Non è vietando di licenziare o promettendo aiuti a pioggia che si può esorcizzare la triste realtà che il conto tra quanto produciamo e quanto consumiamo prima o poi deve andare in pari.

E questo ci porta alla quarta lezione, che è la più incerta perché se le altre riguardano eventi recenti, su cui pure si può dibattere, questa riguarda eventi in corso, su cui ogni opinione merita attenzione e dunque in questo caso più che di lezione mi sento parlare di mera riflessione. E tale riflessione riguarda i pericoli degli aiuti e del nuovo debito che ci accingiamo ad assumere: il senso comune oggi dice che un imponente volume di aiuti da erogare da parte dell’Unione Europea, riequilibrerà i gravi danni economici derivati dall’arresto dei consumi di questi mesi di lockdown.

Il pacchetto di aiuti europei per l’Italia potrebbe raggiungere i 200 miliardi di Euro tra Meccanismo Europeo di Stabilità e Recovery Fund, cioè una cifra imponente e irripetibile in caso di future emergenze. Dobbiamo dunque chiederci:

i) la situazione è così grave da giocarci questa carta ora?

ii) In Italia siamo normalmente in difficoltà a spendere i fondi che ordinariamente ci giungono dall’Unione Europea, sapremo davvero spendere bene questi ulteriori fondi? Perché se sbagliare sui fondi ordinari è doloroso, indirizzare male questa enorme massa di denaro, o non essere capaci di utilizzarla, sarebbe una catastrofe: se ci fidiamo appieno della competenza e lungimiranza della nostra classe dirigente forse questa sarà una grande opportunità, ma se non ci fidiamo in quali mani stiamo consegnando l’opportunità della nostra vita e i risparmi dei nostri figli e nipoti?

iii) Le politiche di accesso alla liquidità, aiuti a fondo perduto, incentivi ai consumi (magari con contenuti moralistici) che individualmente invochiamo danno un beneficio collettivo o sono distorsivi? Perché quasi sempre l’assistenzialismo non solo è ingiusto in quanto finisce per aiutare i più furbi o i più veloci, ma è distruttivo perché esclude e perciò indebolisce le aziende e i settori sani, e rinforza, o quantomeno prolunga l’agonia di quelli che non hanno più un futuro. Se di aiuti abbiamo bisogno, essi vanno ben calibrati, e strutturati in modo che chi li ottiene debba dare contropartite alla collettività: se non hanno un costo saranno fonte di abuso.

Nel guardare al futuro dobbiamo essere ottimisti, ricordare le nostre qualità e competenze, ma non illuderci che vi siano soluzioni che non richiedono sforzo e che non presentano rischi. Dobbiamo rimboccarci le maniche per recuperare i mesi perduti, chiederci quali sono le eccellenze industriali europee su cui puntare, gestire le tensioni sociali con umanità, ma anche con lucidità. L’economista Marianna Mazzucato ha recentemente argomentato che poiché le imprese in crisi si rivolgono ai Governi per essere aiutate, socializzando le loro perdite, il principio deve valere anche per i guadagni portando a una maggiore collettivizzazione del sistema produttivo.

Non condivido questa affermazione, perché penso che rientri nel ruolo dei Governi (che spesso sono concausa delle crisi attraverso le loro stesse regolamentazioni) partecipare agli sforzi per uscire da situazioni che non sono il frutto di errori individuali delle imprese, ma di eventi straordinari e catastrofici. Tuttavia, è una affermazione che tocca la questione di come i Governi devono aiutare le imprese: se razionalizzano tasse e burocrazia per dare libertà e spazio di crescita alle imprese più capaci, il parallelo di Mazzuccato non mi pare per nulla giustificato, ma se danno aiuti a pioggia, magari invocati dalle stesse imprese, allora qualche dubbio si può insinuare.

Se il senso comune oggi dice: “più aiuti possibile”, il buon senso mi pare dovrebbe dire: “attenzione ai rischi degli aiuti, che siano almeno ben meditati”. E già Manzoni raccontando della peste del 1630 diceva: “Il buon senso esisteva, ma si nascondeva, per paura del senso comune”.

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