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Il ritardo nella transizione energetica aumenta i costi e riduce i benefici per il Pil | L’analisi

Una transizione energetica tardiva sarebbe più costosa.

L’azzeramento delle emissioni inquinanti al 2050 porterebbe meno benefici al Pil nazionale se il cambiamento venisse concentrato in solo due decadi, quindi a partire dal 2030 e senza sfruttare i prossimi sei anni.

A stimare l’impatto degli investimenti per raggiungere il target della neutralità carbonica, condiviso a livello europeo, è il nuovo studio realizzato da Asvis e dal centro di ricerca internazionale Oxford Economics, che verrà presentato domani a Ivrea nell’ambito dell’evento di apertura del Festival dello sviluppo sostenibile, scrive il Sole 24 Ore.

Quattro gli scenari futuri ipotizzati, oltre a quello di base che parte dalle stime attuali sul Pil: i primi due (net zero e net zero transformation) simulano entrambi investimenti “verdi” e innovazioni per il raggiungimento della neutralità nel 2050, il secondo in particolare grazie all’introduzione di riforme strutturali e incentivi per stimolare gli investimenti privati in grado di generare uno shock economico; il terzo scenario è quello della transizione tardiva, in cui processi e investimenti vengono posticipati al 2030 e rafforzati per ottenere gli stessi obiettivi in tempi più stretti; infine nel quarto scenario si prospetta la “catastrofe climatica”, in caso di inazione e fallimento delle politiche.

Nei primi due scenari l’azione di contrasto inizierebbe già oggi, conseguendo neutralità carbonica entro il 2050.

Al traguardo la temperatura media globale aumenterebbe fino a 1,6 °C, per poi riscendere a 1,5 °C nel 2100, rientrando nell’obiettivo dell’Accordo di Parigi.

Nel 2050, il Pil italiano risulterebbe inferiore di appena lo 0,4% rispetto alle stime attuali (net zero) se non, addirittura, superiore del 2,2% se la transizione venisse accompagnata con politiche che stimolano l’innovazione (net zero transformation).

In questo caso le riforme, la maggiore spesa e gli investimenti andrebbero ad aumentare la produttività, riducendo anche la disoccupazione.

Se però l’intervento tardasse ad arrivare (quindi senza accelerazioni prima del 2030, nel terzo scenario), allora l’incremento delle temperature salirebbe a 1,7 °C e il Pil stimato scenderebbe di tre punti percentuali rispetto alle attese.

Quindi benefici inferiori e costi più elevati rispetto allo scenario tempestivo.

Infine, l’ultima ipotesi – senza interventi – determinerebbe un aumento di 2,3 °C al 2050, una riduzione del 30% del Pil italiano e un aumento della disoccupazione.

Inoltre, lo studio ipotizza l’introduzione di una tassa sul carbonio, che graverebbe maggiormente sulla popolazione se introdotta solo dal 2030: un intervento tardivo da spalmare su meno anni.

Infine anche gli investimenti, pubblici e privati, giocano un ruolo cruciale: nei primi due scenari si assume che gli investimenti raddoppino entro il 2030, con una quota di investimenti privati che arriva a toccare il 70% nel 2050; un risultato che – in caso di ritardi – viene posticipato con effetti positivi concentrati su meno anni.

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