In un’Italia da reinventare, quando il coronavirus sarà solo un ricordo, ci troveremo in una condizione prossima al dopoguerra. Non certo dei primi periodi, ma analoga al contesto degli anni ’50, ovvero in quella fase in cui la ricostruzione era terminata e c’era da lanciare il paese verso un benessere sociale generalizzato. Si parte da un presupposto: l’Italia in pochi decenni, fece ciò che l’Inghilterra impiegò due secoli, ovvero una rivoluzione industriale, che portò il nostro paese ad essere in tal senso, la quarta potenza del mondo.
Il modello d’impresa più importante di quegli anni ed il più studiato, fu quello di Adriano Olivetti. Con caratteristiche di alto profitto, coniugate ad una parallela organizzazione sociale. Un esempio che fa pensare come si possa nutrire speranza nella capacità di noi italiani, di sollevarci anche dalle situazioni più cupe. Perché Adriano Olivetti, in un epoca in cui si partiva con la valigia di cartone, verso un destino sconosciuto e senza una meta, riuscì a creare un’azienda leader nel mondo. Un’evenienza possibile solitamente in congiunture ottimali.Olivetti ere definito un visionario, per certi tratti l’uomo dell’utopia, ma assimilava alti margini di guadagno a una concezione del mondo del lavoro, assolutamente volta al benessere dei suoi lavoratori.
Infatti il loro salario era del 20% superiore alla media e veniva aggiunta gratuitamente un’assistenza sociale, che solo dopo anni di lotte sindacali e maturazione politica, il nostro paese riuscì a garantire a tutti.Industriale, intellettuale, urbanista, editore, progettava da solo le sue industrie, ispirando gli eccellenti professionisti di cui si circondava. I dirigenti d’azienda li sceglieva sovente tra umanisti raffinati, che nulla avevano in comune con quel mondo. Gli scrittori Geno Pampaloni, Ottiero Ottieri e Paolo Volponi, erano suoi stretti collaboratori. Ed è tutto dire.
Posti nelle condizioni di massimo benessere sul lavoro, i dipendenti Olivetti producevano il 15% oltre lo standard. Ed anche questa situazione portò la produttività a crescere in un decennio del 500%. Poi, con l’apertura del mercato estero, ad un 1350% d’incremento. Un utile economico per Olivetti, che era fonte di distribuzione di introiti, ma soprattutto di reinvestimento in campo sociale della sua azienda. E quindi più asili nido, più biblioteche, più lunghi d’incontro per i suoi dipendenti. In tal modo, il modello Ivrea divenne un esempio di industria-comunità. Una comunità sociale dove vi erano saldi valori etici, che proliferavano da padre in figlio.
Sembrava la città dell’utopia, ma il successo dei prodotti Olivetti nei mercati del mondo, dava un senso di grande concretezza. La “Lettera 22”, fu una macchina da scrivere che venne giudicata: “il primo dei cento prodotti degli ultimi cento anni”, dall’Illinois Institute Of Technology. In un Italia disorientata e tremebonda, al cospetto del coronavirus, e preoccupata per il pericoloso arretramento economico che ha determinato, pensare che in condizioni molto più avverse sia stato possibile un miracolo imprenditoriale di tal genere, deve essere un ristoro, un’iniezione di speranza, se non di fiducia. C’è bisogno di uomini illuminati che sappiano sfruttare il “momento zero”, come tempo di riorganizzazione del sistema o di sistemi. Se Olivetti rivoluzionò le catene di montaggio del “fordismo” – che aveva studiato in America – vi può essere chi riproggetta la produzione secondo nuovi criteri, più innovativi e fruttuosi.
Quando Olivetti, in luogo di sfruttare la manodopera a basso costo proveniente dal meridione, andò al Sud per aprire una fabbrica a Pozzuoli, venne visto dai colleghi come un’astrusità. Eppure, in quella realtà difficile, dove in pochi giorni arrivarono 15.000 richieste di assunzione, di cui molte con la lettera di accompagnamento politico, lui riuscì a costruire l’ennesimo miracolo produttivo. Il modello Ivrea che si spostava in un luogo completamente diverso, ma che produceva gli stessi risultati.Segno che ogni sfida era possibile ed è possibile, se basata su idee progettuali strutturate.
E perché non pensare che gli italiani, inventori del Rinascimento, non siano capaci di produrre dei virtuosismi? Nella teoria e nei fatti, lo stesso Olivetti può essere visto come un personaggio rinascimentale, con il suo cenacolo di intellettuali, con le sue schiere di artigiani e quello spirito di creare il bello, perché credeva che solo dove vi è bellezza vi può essere sviluppo e proliferazione. Leggere la sua vita e capire le sue idee è istruttivo per chi è pronto a ripartire. Perché Olivetti ha insegnato che con il sogno si costruisce la realtà. Il sogno e l’audacia del metterlo in atto.