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Il digitale non potrà mai sostituire l’uomo: bisogna favorire l’uptake tecnologico delle imprese e l’upskilling delle persone

La crisi innescata dal dilagare a livello globale dell’epidemia di coronavirus ha investito in maniera inaspettata le economie e i sistemi produttivi a livello globale. Il lockdown generalizzato, avvenuto quasi in contemporanea in buona parte del mondo, ha segnato un avvenimento inedito nella storia umana: il confinamento nelle proprie case degli abitanti di vastissime aree geografiche e l’interruzione di buona parte delle normali attività economiche e commerciali allo scopo di contenere il dilagare dell’epidemia e salvare vite umane. Se in passato la quarantena poteva venire applicata a quartieri e talvolta a intere città, mai nella storia era accaduto che interi Stati fossero costretti a un blocco pressoché totale.

Lo scenario inedito in cui ci siamo trovati in questi mesi richiede pertanto un ripensamento completo dei tradizionali modelli di business e dei processi produttivi di aziende e servizi. Perché le imprese non solo devono attutire il colpo dei mesi di chiusura forzata, ma sono tenute a prepararsi a uno scenario economico futuro che si è fatto incerto ed estremamente fluido.

D’altra parte, il Covid-19 è stato un incredibile fattore di accelerazione dei fenomeni di transizione al digitale che, per molti versi, erano già in atto: una trasformazione epocale resa possibile negli ultimi anni dalla disponibilità di nuovi sistemi tecnologici e dalla loro evoluzione a una velocità esponenziale, unito a un graduale cambiamento dei costumi e delle abitudini nella società di massa.

Ora, però, la cifra della ripartenza post-Covid è quella di un «new normal» in cui l’abitudine al cambiamento, la resilienza e la capacità di rinnovare i modelli ed il modo di generare valore sono gli ingredienti di base con cui affrontare i megatrend derivanti dalla demografia, dalla necessità di implementare una economia circolare e di innescare fenomeni di innovazione sociale.

In questi mesi abbiamo infatti constatato che le aziende che avevano già intrapreso percorsi di innovazione basati su digitalizzazione e informatizzazione dei processi organizzativi e produttivi hanno mediamente saputo adattarsi in maniera più efficiente e tempestiva al nuovo scenario determinato dalla pandemia. Nonostante non siano pochi gli esempi di imprese italiane che in questa fase stanno dimostrando tutto il loro potenziale di reazione alle problematiche contingenti, il tessuto produttivo del nostro Paese – specie in alcune aree geografiche – sconta un sensibile ritardo in questi ambiti rispetto all’estero.

La presenza di innovazione costante e strutturale in ogni organizzazione, indipendentemente da industry e dimensione, sarà il discrimine per le aziende vincenti. Alcune analisi internazionali parlano di “DNA innovation”, attraverso tre aree destinate a convergere sempre più in futuro: le tecnologie digitali mature (mobile, cloud…), i risultati della ricerca scientifica e le tecnologie emergenti “DARQ” (blockchain, intelligenza artificiale, realtà estesa e calcolo quantistico). Una progressione determinata soprattutto dall’ultimo gruppo, visto che la pandemia ne ha enormemente accelerato lo sviluppo.

La pandemia stessa ha condotto in questa direzione, favorendo la collaborazione dei grandi colossi IT con l’OMS per identificare vettori di contagio e con le Big Pharma per simulare mutazioni del virus e vaccini da sperimentare. Gli ecosistemi dell’innovazione sono la chiave di queste dinamiche, costretti a evolvere con caratteristiche di flessibilità e resilienza mai viste.

Gli ecosistemi più evoluti e dotati strutturalmente hanno un vantaggio competitivo, ma questo gap è colmabile velocemente proprio per la grande accessibilità e la velocità di evoluzione delle tecnologie: il focus strategico va concentrato nel supportare in maniera efficace e tempestiva le aziende con visione nell’acquisire una “DNA innovation”, generando un fenomeno di trascinamento nelle filiere, grandi e piccole, locali ed internazionali, anche delle aziende più piccole. Questo significa favorire il trasferimento e l’uptake tecnologico delle imprese, ma ancora prima l’upskilling delle persone in termini di competenze manageriali, creative e di orientamento alle tecnologie stesse: il digitale non potrà mai sostituire l’uomo nel suo contributo originale e visionario per la creazione e lo sviluppo di nuovi modelli, sociali ed economici.

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