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L’Unesco e l’errore dell’America | L’intervento di Roberto Grandi

È stata approvata a a larga maggioranza la richiesta degli Stati Uniti di essere riammessi all’Unesco, da cui si erano allontanati alla fine del 2018. Perché gli Stati Uniti sono ritornati su una decisione che ha avuto i suoi prodromi nel 2011, quando sotto la presidenza Obama interruppero i finanziamenti all’organizzazione a seguito dell’ammissione della Palestina come stato membro?

Nel 2013 gli Stati Uniti, morosi nei pagamenti dei contributi, persero il diritto di voto e cinque anni dopo l’amministrazione Trump decise il ritiro dalla agenzia motivandolo con la prevalenza di un atteggiamento antisraeliano e problemi di carattere amministrativo-gestionale. Peraltro, già nel 1984 l’amministrazione Reagan si ritirò dall’Unesco con la motivazione di corruzione e di forte influenza dell’Unione Sovietica, per poi rientrarvi nel 2003. Ma questa volta la situazione è diversa e più interessante, anche per l’Italia.

La decisione degli Stati Uniti di non finanziare più l’Unesco (di cui erano i maggiori contribuenti con il 20% del budget) era influenzata dalla convinzione che l’agenzia avrebbe avuto grandi difficoltà nel continuare la propria attività incentrata sull’educazione, scienza e cultura con progetti di carattere multiculturale che venivano giudicati non così interessanti e strategici. Ciò che gli Stati Uniti avevano sottovalutato è che in un mondo in cui il softpower ha una importanza sempre maggiore il vuoto lasciato avrebbe potuto essere occupato dall’altra grande potenza, la Cina, che diventa infatti il maggior contribuente dell’agenzia.

Fino a quando ciò comporta un incremento dei siti cinesi Patrimonio dell’Umanità, in cui la Cina con 56 siti segue a un paio di lunghezze l’Italia, o progetti educativi, formativi e culturali nelle aree depresse del mondo l’assenza dalla agenzia è giudicata accettabile. Quando però sotto la guida del Direttore Generale Audrey Azoulay – già Ministra della Cultura in Francia – il campo di intervento si allarga e affronta temi centrali allo sviluppo tecnologico, come la definizione degli standard per l’intelligenza artificiale e le tecnologie educative a livello mondiale, l’assenza dall’Unesco comincia a pesare.

Pochi mesi fa il Sottosegretario di Stato John Bass ha affermato, infatti, che l’assenza statunitense rafforzava la Cina, minava l’efficacia internazionale degli Stati Uniti nella promozione di una visione di mondo libero e indeboliva la competizione con la Cina nell’era digitale. Concetti analoghi sono stati espressi dal Segretario di Stato Antony Blinken che giudicava uno svantaggio non sedere ai tavoli in cui si prendono decisioni su standard internazionali.

Così, pochi giorni fa, gli Stati Uniti sono rientrati impegnandosi a ripianare gli arretrati, più o meno sui 619 milioni di dollari, e a ritornare il maggiore contribuente dell’Unesco. Audrey Azoulay non ha mancato di sottolineare il significato politico di questo ritorno, in un’epoca di contrapposizioni internazionali tra le grandi potenze: «Si tratta di un forte atto di fiducia nell’Unesco e nel multilateralismo. Non solo nella centralità del mandato dell’organizzazione – cultura, educazione, scienza, informazione – ma anche nel modo in cui questo mandato viene attuato oggi».

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