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[L’intervento] Giuseppe Coco (economista): «La lezione della Cassa»

Pubblichiamo il contributo di Giuseppe Coco al libro “Next Generation Italia. Un nuovo sud a 70 anni dalla Cassa per il Mezzogiorno”, edito da Rubbettino editore a cura degli economisti Claudio De Vincenti e Amedeo Lepore.

Il mio compito è quello di presentare il position paper che si può trovare sul sito di Merita e che è sottoscritto da tutti i membri promotori dell’associazione, sottolineando alcuni aspetti e traendone delle conseguenze più dirette di policy. Il nostro scopo in questo convegno, ma anche con il paper, non è quello di discutere la storia della Cassa per il Mezzogiorno di per sé, quanto quello di cercare di trarre da questa storia, dai fattori di successo in particolare della Cassa per il Mezzogiorno, e anche in parte, dalla storia poi del suo progressivo peggioramento nel corso del tempo, delle lezioni utili per il presente.

Perché ci troviamo effettivamente in una contingenza nella quale la politica di sviluppo nel Mezzogiorno ha l’occasione per così dire di vivere un particolare rinascimento. Per cui dedicherò una piccola parte di questa discussione a un excursus storico sulla Cassa, una parte relativamente breve. Poi, però, vorrei discutere di alcuni fattori di forza di quell’esperienza rispetto, in particolare, a quella successiva.

La Cassa per il Mezzogiorno, come sapete, è stata fondata nel 1950. L’impulso per la fondazione della Cassa ha un’ispirazione che non è puramente politica ma autenticamente morale, come dovrebbe sempre essere, per grandi progetti di policy di una società avanzata come la nostra.

Tale ispirazione viene effettivamente da una classe dirigente probabilmente irripetibile, nel senso di una classe dirigente almeno in parte, per così dire, di “anti-italiani”, nel senso di italiani che si erano opposti a un precedente regime autoritario purtroppo molto popolare. L’ispirazione morale era quella di portare allo stesso livello di sviluppo del resto del Paese una parte d’Italia che era stata trascurata in maniera plateale, in particolare nei decenni del regime, al punto che una parte importante del divario si costruì in quel ventennio.

Ed infatti nei primi sette anni di esperienza, la Cassa per il Mezzogiorno effettua un intervento di infrastrutturazione basilare che potremmo chiamare ‘infrastrutturazione civile’, oltre che quella per l’agricoltura, le bonifiche ad esempio, già ricordate in parte. L’infrastruttura civile cioè che portò l’acqua, per esempio, e alcuni beni e servizi essenziali, in aree dove effettivamente non erano mai arrivati. Nei sette anni successivi, la Cassa per il Mezzogiorno invece intraprese un’opera di industrializzazione: dopo un intenso dibattito fra agrari e industrialisti, fortunatamente a mio parere, si impose l’idea che il Mezzogiorno avesse effettivamente bisogno anche di un impulso industriale.

Vorrei ricordare il dibattito dell’epoca tra chi sosteneva che il Mezzogiorno dovesse concentrarsi sulla propria vocazione agricola e quelli che, ripeto, fortunatamente prevalsero e che pensavano che l’industrializzazione fosse un passo inevitabile per una società avanzata. In questa polemica riecheggia in un certo senso un dibattito ancora attuale. Ancora oggi molti pensano che il vero oro del Mezzogiorno siano alcune attività, non solo l’agricoltura ovviamente, ma in questo caso, il turismo. Io penso invece che della Cassa dobbiamo recuperare anche questo aspetto, cioè dobbiamo, pensare al Mezzogiorno, come a una società complessa che non può specializzarsi unicamente in una vocazione, ma deve invece essere una società con specializzazioni multiple, non necessariamente industriali ma sicuramente distribuite su una pluralità di servizi complessi se vogliamo uscire dalla nostra situazione.

Sta di fatto che attraverso quel processo di industrializzazione e per quindici anni circa, il mezzogiorno è cresciuto a tassi spettacolari. Tutta l’Italia cresceva a tassi spettacolari, ma il Mezzogiorno di più. Il Paese era impegnato in un’opera di catch-up, di rincorsa sostanzialmente per arrivare alla frontiera tecnologica.  E questo processo lo abbiamo definito ‘miracolo italiano’, ma in realtà c’è stato dopo o contemporaneamente al miracolo italiano, quello giapponese, quello di altri Paesi europei, e poi c’è stato il miracolo cinese e il miracolo delle tigri asiatiche. Insomma si tratta di fenomeni non proprio così misteriosi, in cui i paesi arretrati ma con fattori di sviluppo importanti, raggiugono la frontiera tecnologica per effetto di trasferimento tecnologico e stabilità del quadro legale.

Dopo di che, ovviamente, negli anni Settanta, raggiunta la frontiera tecnologica, non siamo riusciti a ristrutturare il nostro sistema industriale e produttivo, anche a seguito delle crisi da shock petrolifero. E tutto il modello di sviluppo, del nostro Paese, come ci ricordava poco fa quella piccola discussione illuminante di Giuseppe Galasso, è entrato in crisi.

E’ entrato in crisi anche il sistema delle politiche di sviluppo, perché non era più così ovvio che cosa si dovesse fare. Ma il fattore di crisi più importante per il Mezzogiorno è stato sicuramente di carattere istituzionale. Cioè contemporaneamente alla crisi industriale italiana, si è verificata una modifica degli assetti istituzionali che ha reso sempre più difficile l’operare della Cassa, l’operare autonomo, diciamo così, della Cassa per il Mezzogiorno. Le decisioni tecniche sono state interferite in maniera sempre più pressante dagli interessi locali e la risposta in generale del Paese alla crisi è stata di tipo assistenziale, cosa che ha portato a distribuzioni molto più diffuse di risorse per far fronte alla crisi.

L’aspetto curioso è che la fine dell’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno, che sicuramente era diventata qualcosa di molto diverso dall’esperienza iniziale, è stata analizzata poi da alcuni economisti e da loro interpretata in maniera opposta a quanto appena detto. Ovvero si è ipotizzato che la Cassa per il Mezzogiorno avesse fallito il proprio scopo a causa della sua scarsa corrispondenza alle esigenze territoriali, e non il contrario.

È stato quindi elaborato un paradigma alternativo, quello delle politiche così dette bottom up, in cui le politiche di sviluppo devono essere elaborate a partire dai territori, frazionando l’intervento in maniera tale che tutti possano beneficiarne in qualche maniera. Il che è il contrario di una politica organica dello sviluppo che deve necessariamente essere concentrata, in cui bisogna fare delle scelte territoriali ben precise, e se possibile basate su vantaggi competitivi dei territori che le recepiscono, e non necessariamente sulle richieste immediate di territori, che spesso sono invece comprensibilmente assistenza mascherata.

In questa cornice è nato a fine anni Novanta il paradigma della Nuova Programmazione, a mio parere il più grande fallimento di politica economica della storia della Repubblica, perché paradigma elaborato ed anche attuato per quindici anni dalle stesse persone che lo hanno elaborato. Quindi è difficile trovare una causa del suo fallimento che non sia basata sull’ammissione che i suoi presupposti fossero chiaramente sbagliati.

Adesso, a 25 anni di distanza dalla partenza di quelle politiche, possiamo dire certamente, confrontandoli coi primi 25 anni della Cassa per il Mezzogiorno, che l’esperienza della Nuova Programmazione ha portato a un’apertura del divario molto preoccupante. Quindi la prima lezione da trarre è che qualcosa della Cassa ha funzionato, ma quasi niente dell’esperienza successiva, fatta appunto di concertazione e di richieste diffuse dei territori.

Qualche volta si dice che la Cassa per il Mezzogiorno ha avuto molte più risorse della Nuova Programmazione. Con l’eccezione di alcuni periodi del ventennio recente, in cui i fondi per il Sud sono stati dirottati a usi generali, questo è sostanzialmente falso. Stefano Palermo, che è nel Panel, per esempio, ha fatto una ricostruzione secondo la quale la Cassa per il Mezzogiorno ha utilizzato somme attualizzate ad oggi pari a circa 7 miliardi all’anno. In una programmazione settennale sono 49 miliardi, che corrisponde approssimativamente alla cifra che il Ministro Provenzano ha appostato nella prossima programmazione settennale delle politiche di coesione sul Fondo sviluppo e coesione (sul solo FSC, cioè il Fondo nazionale della coesione). Poi ci sono i fondi strutturali europei e il cofinanziamento, che quindi più che raddoppiano la dotazione.

Quindi, in realtà, i fondi che noi utilizziamo oggi sono assolutamente paragonabili se non maggiori a quelli che furono a disposizione della Cassa. È ovvio che questa comparazione, fatta secondo una regola del pollice, non è esaustiva, però da un’idea del fatto che le risorse sulla carta sono comparabili, e non è vero che la Cassa avesse queste dotazioni così miracolosamente più elevate della Nuova Programmazione.

Quindi, se è vero che la Cassa ha funzionato, che cosa ha funzionato almeno nei primi 25 anni meglio rispetto alle politiche successive? Quali sono i fattori che possiamo identificare come i suoi fattori di forza, che dobbiamo cercare di replicare? A nostro parere questi fattori sono essenzialmente tre.

Il primo è che la Cassa per il Mezzogiorno è stata un istituto tecnico, fortemente connotato come tale in maniera molto diversa dalle strutture tecniche che proliferano in questa fase. Le strutture tecniche che abbiamo oggi sono sempre strutture di monitoraggio, di valutazione, di accompagnamento, di semplificazione, mai di attuazione diretta degli interventi. Abbiamo di recente assistito a un moltiplicarsi di queste strutture tecniche che aggiungono complessità ai processi decisionali piuttosto che semplificarli. Ogni volta che vediamo un nuovo nucleo nascere e tra i suoi scopi prevalente è il monitoraggio, ecco io direi dobbiamo essere perlomeno scettici sulla sua reale utilità. Non aiuterà sicuramente l’attuazione di nessuna politica.

La Cassa era un istituto tecnico connotato in termini attuativi. In particolare, tra le figure professionali, c’erano molti architetti e ingegneri piuttosto che giuristi ed economisti (e lo dico da economista), professionalità queste ultime di cui oggi è troppo piena la Pubblica Amministrazione. Questo vale a tutti i livelli di governo, ed è un’indicazione che probabilmente va data a tutta la pubblica amministrazione.

Il secondo elemento è la sua relativa indipendenza dalla politica, preservata molto gelosamente da Gabriele Pescatore, e che era un elemento importante anche nella valutazione degli interventi da effettuare. Pescatore si faceva un vanto di aver litigato con tutti i politici del Sud, di qualunque schieramento e posizione geografica. A questo atteggiamento si è sostituita una filosofia in cui programmaticamente bisognava accontentare le richieste dei ‘territori’, anzi partire da esse. Alcuni degli interventi che vediamo ancora oggi nel Piano di Ripresa e Resilienza non hanno il sostegno di uno straccio di evidenza sulla loro utilità. E non parlo di una analisi costi-benefici, che in effetti sarebbe troppo complessa in questa contingenza. Ma almeno bisognerebbe dimostrare che i costi stimati delle opere sono latamente giustificati in rapporto al numero di persone che presumibilmente le potranno utilizzare.

Il terzo fattore, e forse il più importante a mio parere, consisteva nella possibilità di ignorare logiche distributive a tappeto, che invece sono diventate un’altra connotazione tipica della politica di coesione successiva. Oggi abbiamo delle chiavi di riparto territoriali per ogni Regione, e all’interno di ogni Regione poi si deve orientativamente rispettare la stessa logica di distribuzione territoriale. Questo è il principale motivo per cui abbiamo avuto tantissime sagre delle castagne e pochissimi acquedotti costruiti negli ultimi 25 anni. Li ha in effetti costruiti la Cassa, ma abbiamo invece oggi un deficit di investimento sulla loro manutenzione che è diventato ormai insostenibile.

Purtroppo lo sviluppo, tranne che per i non pochi romantici che sognano un’Italia fatta di borghi tutti invariabilmente prosperi, è un fatto diseguale che non può procedere in maniera uniforme sul territorio. Bisogna fare delle scelte che in prima battuta sembrano avvantaggiare e svantaggiare alcune aree ma che in realtà fanno da traino per l’insieme del territorio, ossia delle scelte che hanno un carattere strategico. Le può fare soltanto un’autorità nazionale. Così come nazionale è stata e doveva essere la politica di sviluppo della Cassa per il Mezzogiorno, nazionale deve tornare ad essere la politica di coesione oggi ed in particolare la gestione e le scelte fondamentali del Piano di Ripresa e Resilienza.

L’intervento della Cassa per il Mezzogiorno si è caratterizzato anche per un fortissimo dirigismo, nel senso che l’intervento, sia diretto sia attraverso incentivi, è stato guidato da una programmazione molto forte che oggi probabilmente non sarebbe riproponibile. In ultima analisi la cosa che non possiamo fare come invece fecero i protagonisti della Cassa è scegliere su quali settori investire. Un paese arretrato sa meglio che cosa deve fare semplicemente perché l’industria si deve semplicemente adeguare, diciamo così, a paradigmi già esistenti altrove, anche se non è banale farlo. Per noi invece oggi, come società avanzata, si tratta di generare fattori di sviluppo, piuttosto che settori. Una cosa molto più difficile, ma non impossibile.

Per altro anche sui settori, qualcosa sappiamo. Per esempio sappiamo che dobbiamo investire moltissimo sulle tecnologie di de-carbonizzazione. Su alcune di esse, il Mezzogiorno, ha un chiaro vantaggio localizzativo, dei vantaggi comparativi, per esempio sull’idrogeno. Facciamo in maniera tale che se dobbiamo sviluppare tecnologie di questo genere, il Mezzogiorno non sia lasciato fuori dalle fasi alte, chiamiamole così, di queste filiere tecnologiche, ovvero la ricerca, la sperimentazione, lo sviluppo delle nuove tecnologie.

La sfida è immane ma abbiamo importanti indicazioni dal passato recente e dall’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno. L’importante è volerle vedere.

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