Un grande test per la ripartenza, anzi, in qualche modo già la prova che la ripartenza della cultura, e con essa dei vari indotti collegati, è possibile e, per estensione, rappresenta un simbolo del ritorno alla vita di tutto il Paese. La Biennale di Architettura di Venezia, che si è aperta al pubblico sabato 22 maggio dopo tre giorni di anteprima, ha scelto di essere in presenza, dopo il rinvio dello scorso anno che ha fatto slittare di 12 mesi tutte le programmazioni. Una decisione che è stata condivisa con le istituzioni e che lo Stato ha voluto sottolineare con la presenza, oltre che del ministro della Cultura Dario Franceschini, anche con quella del presidente della Camera Roberto Fico.
“La ripartenza – ha detto Franceschini all’inaugurazione del Padiglione italiano – è una sfida che la Biennale ha già condotto l’anno scorso quando, primi al mondo, abbiamo deciso di fare comunque il Festival del Cinema, sembrava un azzardo, è stato fatto in sicurezza, è andato tutto bene ed è la dimostrazione all’Italia e al mondo che la cultura può ripartire, naturalmente con le misure indispensabili. Ma è importante dimostrare che anche con queste limitazioni possiamo avere davanti una grande stagione di ripartenza. Si può fare, in sicurezza, ma si può fare”.
“Accoglieremo tante persone qui alla Biennale – gli ha fatto eco Fico da Ca’ Giustinian, sede della Biennale – ed è la dimostrazione che si può lavorare in presenza, in sicurezza, e che l’Italia riparte. Non sono preoccupato perché nel momento in cui tutti i protocolli che sono stati previsti vengono rispettati, e qui c’è una professionalità enorme per farli rispettare, non c’è alcun problema di sicurezza, anzi, è davvero un’opportunità per comprendere come il Paese può ripartire”.
Il valore anche simbolico, insomma, di questa Biennale è chiaro, la posta in gioco è la stessa di cui tratta il tema dell’esposizione diretta da Hashim Sarkis, che, da prima dell’esplosione della pandemia, ha scelto di interrogarsi sui modi in cui è possibile continuare a vivere insieme. Domanda che oggi assume un’ulteriore centralità nel nostro presente, oltre che un’occasione per sfruttare la crisi come opportunità di cambiamento. Partendo dalle fragilità del nostro mondo e, soprattutto, del nostro modello di sviluppo, per indagare lo spazio, in questo senso profondamente architettonico, con un nuovo approccio. E il presidente della Biennale, Roberto Cicutto, ci ha tenuto a sottolineare come abbia “voluto fortemente che i contenuti di questa mostra invadessero il dibattito internazionale”.
“Sono certo – ci ha invece detto il curatore Sarkis – che abbiamo imparato molto dalla pandemia, come questa lezione si trasformerà in un vero impatto sull’architettura è troppo presto per dirlo. Ma ciò che vedo è una volontà di tornare a lavorare insieme, come dimostrano le tante partecipazioni nazionali, e vedo anche il tentativo di trasformare l’architettura in un’altra dimensione del nostro vivere sociale, anche da un punto di vista politico”. La Biennale di Architettura durerà, come di consueto, fino a novembre, ma i primissimi giorni di apertura sono comunque una sorta di proiezione del momento e delle possibili dinamiche anche dei mesi successivi.
E quello che abbiamo visto, battendo la città e le sedi espositive, è che il pubblico ha voglia di tornare, si percepisce una sorta di controllata euforia tra i visitatori dei Giardini e dell’Arsenale, così come delle istituzioni museali che hanno scelto di riaprire in questi giorni e Venezia appare nuovamente popolata dai turisti, come già era accaduto nel precedente weekend, anche se la percentuale degli stranieri resta ancora bassa. La sensazione è che si stiano facendo le prove generali di un’estate che dovrebbe vedere la città lagunare tornare al centro dei flussi di movimento.
Con tutte le problematiche che, comunque, restano sul tavolo, perché se da un lato si assiste a tentativi di creare un turismo policentrico sfruttando luoghi come la Giudecca o l’isola della Certosa, ultima frontiera del recupero di aree in precedenza abbandonate, dall’altro permane la sensazione di un turismo che converge solo verso determinati luoghi e lungo determinati percorsi, senza che vengano proposte concretamente delle alternative. Con il rischio che anche dopo la pandemia non si riesca a immaginare un modello diverso rispetto a quello dell’iperturismo, che nei fatti alla fine porta anche molti danni alle città come Venezia o Firenze, solo per citare due casi ben noti.
In ogni caso, le misure di sicurezza previste e i flussi comunque non ancora così ingenti hanno offerto, per quanto riguarda la Biennale, una situazione diversa rispetto alle aperture del passato, come se la domanda di consapevolezza che viene sollevata dalla mostra internazionale e dalle partecipazioni nazionali fosse stata fatta propria anche dal pubblico, e questo è un elemento che fa ben sperare in prospettiva. Così come è di buon auspicio, per tornare ai temi più prettamente culturali, il fatto che molte delle istituzioni culturali veneziane abbiamo scelto di ripartire con i propri progetti e il proprio stile.
E girando per mostre e musei si trova, in attesa della riapertura anche di Palazzo Grassi, la grande esposizione su Bruce Nauman allestita a Punta della Dogana, che tocca in modo evidente il tema del corpo nello spazio e offre una visione molto ampia su una delle lezioni artistiche più rilevanti del presente. In Fondazione Prada, che ha riaperto per la prima volta dopo le chiusure dei primi mesi del 2020, viene invece presentata la mostra “Stop Painting”, curata dall’artista Peter Fischli e dedicata ai periodi di crisi della pittura nell’ultimo secolo e mezzo. Due progetti che rispecchiano i percorsi di ricerca di entrambe le istituzioni e che sono luoghi di riflessione e confronto, anche complesso, ma decisamente fecondo.
La vita culturale di questa Venezia che si riscopre al centro del mondo, poi, passa anche da Palazzo Grimani, dove sono ospitate grandi opere astratte di Georg Baselitz, o da Palazzo Franchetti, dove è allestita una mostra suggestiva sulla relazione tra Campigli e gli Etruschi.
E poi non si può non citare la costanza della Collezione Peggy Guggenheim, che resta un punto di riferimento imprescindibile per l’arte moderna oltre che un luogo molto amato, così come per la fotografia continuano i progetti della Casa dei Tre Oci alla Giudecca, dove ora è aperta una mostra su Mario De Biasi, o ancora i Giardini Reali di piazza San Marco, restituiti al pubblico in primo luogo nel loro essere giardini per la cittadinanza e solo dopo per offrire anche eventi espositivi, come quello del collettivo LABINAC. Il tutto, ovviamente, con il corredo dei molti altri spazi culturali che stanno riaprendo, così come degli eventi collaterali della Biennale dei padiglioni, come per esempio quello della Catalogna, dislocati in città.
Per chiudere il cerchio su queste giornate che hanno visto spesso il sole su Venezia, ma anche dei rapidi rovesci tipici dell’umore della Laguna, si può tornare ancora a Cicutto e alla sua visione di creare attraverso la Biennale “un dialogo costante per la formazione, la ricerca e l’approfondimento di temi che possono avere rilevanza nella società, ossia un modo di tradurre lo slogan che il bello e l’arte possono cambiare il mondo”. La ripartenza comincia da qui.
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