Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

[L’anticipazione] Antonio Calabrò (direttore Fondazione Pirelli): «Un capitalismo inclusivo e sostenibile per il futuro dell’Italia»

Riportiamo un passaggio del libro “L’avvenire della memoria – Raccontare l’impresa per stimolare l’innovazione” di Antonio Calabrò, senior vice president Affari istituzionali e cultura di Pirelli e direttore della Fondazione Pirelli, presidente di Museimpresa e della Fondazione Assolombarda, nonché vicepresidente dell’Unione Industriali di Torino e membro dei board di numerose istituzioni e società. Il libro è edito da Egea.

C’è un’immagine dalla straordinaria forza simbolica che connota il lungo e drammatico Novecento: l’Angelus Novus, dipinto da Paul Klee, con lo sguardo rivolto all’indietro, verso le macerie della Storia. Walter Benjamin, intelligenza inquieta e visionaria, critica e profondamente malinconica, ha scritto pagine intense, che vale la pena rileggere per riflettere, proprio in questi nostri tempi controversi e così densi di turbolenze e speranze, su come legare la conoscenza storica alla necessità di progettare il futuro, su come cioè rimemorare e, contemporaneamente, costruire migliori equilibri civili, sociali, economici.

Scrive Benjamin che nel quadro di Klee c’è «un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’Angelo della Storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Oggi, sotto la spinta dei drammatici eventi contemporanei (la Grande Crisi finanziaria del 2008 che ha disvelato le intollerabili diseguaglianze d’una globalizzazione poco e male governata; l’aggravarsi dei problemi legati al climate change; gli squilibri geopolitici, la guerra in Ucraina e altri venti di guerra fredda nel cuore dell’Europa; la pandemia da Covid-19 e la grave recessione mondiale conseguente, con l’aggravante della ripresa dell’inflazione e dell’esplosione dei prezzi dell’energia), ci tocca insistere sull’urgenza del «cambio di paradigma» delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale e, dunque, rileggere criticamente il catalogo delle idee che hanno guidato i nostri percorsi intellettuali e politici, a cominciare proprio dalle idee di una globalizzazione sempre e comunque positiva e di «progresso» in ogni condizione vantaggioso (come fosse una categoria ideologica), ma anche costruire nuove mappe della conoscenza e dunque riconsiderare scelte politiche, economiche, culturali legate alle prospettive dello sviluppo.

Quale sviluppo? Non solo una crescita economica misurabile in termini quantitativi, con l’aumento del Prodotto Interno Lordo, ma soprattutto una crescita e un miglioramento delle condizioni diffuse del benessere, una più evidente qualità della vita, un abbattimento di squilibri e diseguaglianze. Uno sviluppo, insomma, misurabile con nuovi strumenti in grado di valorizzare, per le politiche pubbliche di spesa e investimento, parametri di qualità sul benessere, il potenziamento delle human capabilities, l’accesso alla salute e all’istruzione. Parametri come gli indici del BES, il Benessere equo e sostenibile (elaborati in Italia dall’Istat e tenuti in considerazione per la scrittura delle Leggi Finanziarie).

L’orizzonte cui guardare è quello di un «capitalismo inclusivo», attento a conciliare libertà economiche e giustizia sociale nella cornice della democrazia liberale. E dunque insistere su uno sviluppo come quello che, per uscire dalla crisi del Covid-19, la Ue ci ha sollecitati a progettare come sostenibile, lavorando per il Recovery Plan su green economy e digital economy e guardando soprattutto alle nuove generazioni: scuola, formazione di lungo periodo, conoscenza (ne parleremo meglio nel prossimo capitolo). E pensando, al di là della crisi sanitaria, a strumenti di compensazione per poter affrontare altre crisi, con scelte lungimiranti di politiche comuni europee (per l’energia, per esempio, o la sicurezza o la ricerca strategica di base ecc.).

Proprio da questo punto di vista, c’è un’altra pagina che vale la pena rileggere, per cercare, nei classici del secolo appena trascorso, stimoli di riflessione. L’ha scritta John Maynard Keynes nel 1926, in The End of Laissez-Faire: «Penso che il capitalismo, se ben gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente di qualunque sistema alternativo finora concepito nel perseguimento di obiettivi economici, ma penso anche che in sé e per sé esso sia per molti versi estremamente criticabile. Il nostro problema è quello di mettere in piedi un’organizzazione sociale che sia in sommo grado efficiente senza pregiudicare la nostra idea di uno stile di vita soddisfacente».

L’immaginario evocativo dell’Angelus Novus di Klee interpretato da Benjamin, la strategia del riformismo alla Keynes e le elaborazioni del più lungimirante pensiero contemporaneo sulle nuove dimensioni del liberalismo e del welfare sono un solido fondamento di una migliore cultura d’impresa orientata allo sviluppo sostenibile e fanno da base anche alle nostre riflessioni sul ruolo dell’impresa come attore sociale di cambiamento e sviluppo e sulla cultura d’impresa come sistema di valori in grado di legare, proprio nell’esperienza economica italiana, produttività e inclusione sociale, competitività e sostenibilità. E di costruire e rilanciare una relazione originale tra la memoria e l’innovazione.

L’orizzonte di senso è evidente ed è possibile condensarlo in un’espressione: l’avvenire della memoria.

C’è una relazione forte tra la consapevolezza storica e lo sguardo visionario verso un futuro migliore. E una conseguente costruzione di un percorso culturale ed economico capace di usare, proprio in chiave di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, le leve della bellezza e quelle delle conoscenze scientifiche e delle più sofisticate applicazioni tecnologiche. Il «bello e ben fatto» della tradizione manifatturiera e la curiosa capacità di indagare, scoprire, sperimentare e trasformare, che hanno segnato il pensiero italiano ed europeo, dal Rinascimento all’Illuminismo, dall’Ottocento dei grandi cambiamenti storici al Novecento delle più radicali scoperte scientifiche destinate a determinare vere e proprie metamorfosi anche nelle dimensioni delle nostre vite quotidiane. Leonardo e Michelangelo, Galileo Galilei e l’economista Antonio Genovesi padre della «economia civile», sino ai premi Nobel italiani per la chimica e la fisica, con una tensione intellettuale e scientifica che ancora continua: il Nobel per la fisica 2021 a Giorgio Parisi ne è prestigiosa conferma.

L’avvenire della memoria, appunto. Cui sono dedicate queste pagine. Con una consapevolezza che rimanda alla lezione di Leonardo Sciascia e al suo pensiero critico, attentissimo alla necessità della ragione e contemporaneamente cosciente della terribile inclinazione umana all’irresponsabile scarto verso l’irragionevolezza e dunque l’ingiustizia: «Se la memoria ha un futuro»….

C’è un rischio da evitare, la tentazione della «retrotopia», l’attitudine a collocare nel passato l’immaginazione di una società migliore. Una miscela di nostalgia e fuga nell’irrealtà, una fonte di depressione e, contemporaneamente, di rancori sociali. Una strada senza uscita rispetto ai problemi da affrontare con senso di realtà e visione positiva delle battaglie politiche e sociali da condurre, nel nome del cambiamento. Tutto il contrario dell’attenzione al futuro.

Ecco il punto: l’impegno, etico e civile, a costruirlo, quel futuro. E a farlo anche in un mondo, quello dell’impresa, che per sua profonda natura non può non vivere se non lavorando sull’onda dei cambiamenti, delle grandi e piccole trasformazioni delle produzioni e dei servizi, dei consumi e dei costumi, degli stili di vita e degli assetti sociali.

L’impresa cresce, infatti, quando ha solide radici nell’esperienza, una sensibilissima percezione dell’attualità e una coraggiosa tensione visionaria verso le nuove condizioni futuribili. Il mercato su cui deve saper continuamente operare è una rete di bisogni e di sogni, di esigenze e di aspettative, di desideri e di scelte. E questo gioco contrastato e molteplice di ragioni ed emozioni trova risposte nella continua capacità di adattamento dei suoi attori. L’impresa stessa è segnata dalla molteplicità dei ruoli, di produttrice e di consumatrice (di materie prime e beni intermedi, di idee e servizi), e delle funzioni interne ed esterne nella complessità dei sistemi di relazione (l’imprenditore e gli azionisti, i manager e i dipendenti, i ricercatori e i tecnici di produzione, i portatori di interessi da shareholders e i valori e gli interessi da stakeholders). E sta proprio nel dinamismo di queste molteplicità la natura essenziale di un organismo vivo e creativo, in movimento, capace di tenere insieme ragione e sentimento e, naturalmente, memoria e futuro.

La parola opportuna, per rappresentare questi processi, è «metamorfosi». E il racconto è sempre simile a quello di un viaggio, un’avventura, una scoperta. Servono non soltanto curiosità per «nuove terre», ma soprattutto «occhi nuovi per vedere», per dirla con Marcel Proust, muovendosi nella dimensione del tempo e dei ricordi e nelle regioni incerte e sconosciute dell’avvenire che si intravvede. Un «viaggio al termine della notte», certo. Un viaggio, comunque, sempre da ricominciare: «Divaga per altri sentieri, mettiti in cammino per cercare ancora». O ancora: «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre».

L’impresa come viaggio. Come avventura dell’intraprendenza. E come memoria, seguendo anche in economia le indicazioni di Fernand Braudel: «Essere stati è una condizione per essere». E dunque l’impresa come futuro, nello spazio fondamentale tra il pensiero utopico con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte più lontano e la forza determinata della sua realizzazione, come ci ha insegnato un altro maestro del Novecento, Ernst Cassirer: «La grande missione dell’utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo». Utopia e riformismo. Innovazione aperta di ampio respiro e forza nel costruire una storia quotidiana di cambiamento. O, per tornare ai riferimenti iniziali, una sintesi originale tra l’Angelus Novus che però cambi l’orientamento dello sguardo rivolgendosi verso il futuro e la lezione keynesiana di un liberalismo da «società aperta» con una solida sensibilità sociale. L’impresa responsabile ne è un buon paradigma.

C’è appunto tutto questo nell’esperienza e nella progettualità delle imprese italiane, che della cultura e della sostenibilità fanno un pilastro portante della loro competitività. E sono proprio i musei e gli archivi d’impresa a darne un’aggiornata testimonianza. L’esperienza ventennale di Museimpresa, l’associazione fondata da Assolombarda e Confindustria nel 2001 e oggi forte di quasi 120 tra iscritti e sostenitori istituzionali (un catalogo di imprese grandi, medie e piccole e di prestigiosi sodalizi economici e culturali, dal Touring Club Italiano alla Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro) ne è conferma, come racconteremo più approfonditamente nelle prossime pagine. Perché «le fabbriche sono magazzini di ricordi, contenitori di un vissuto individuale e collettivo, da mettere a disposizione di una nazione e dove poter recuperare il lascito delle tante esistenze transitate, l’esperienza umana e professionale, le idee, piccole o grandi, geniali o secondarie, che hanno contribuito a fare crescere il nome dell’azienda».

L’Italia, infatti, è creatività, spirito d’intraprendenza, senso di comunità aperta e inclusiva. Partecipazione. E ha rivelato, anche in queste stagioni di malattie, di conflitti e di dolore, un capitale sociale di straordinario valore, in cui le radici della tradizione, il genius loci della bellezza e del «fare bene» s’incrociano con un forte spirito d’innovazione.  

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