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[L’intervento] Pasquale Tridico (Presidente INPS): «In Italia c’è una generazione perduta, scomparsa in pochi anni. I giovani sono diventati un costo sociale»

I RELATORI

Pasquale Tridico, presidente dell’INPS, ha rilasciato, in esclusiva all’Osservatorio Economico e Sociale Riparte l’Italia, alcune dichiarazione nel webinar dal titolo “I fattori di competitività delle imprese su cui investire”. L’evento, moderato da Paolo Peluffo, il segretario generale del CNEL, ha visto tra gli ospiti anche Angelica Krystle Donati, Ceo di Donati Immobiliare Group e presidente ANCE Giovani per la Regione Lazio, Nando Pagnoncelli, presidente di IPSOS, e Niko Romito, Chef tre stelle Michelin.

Dal suo osservatorio, che spunti ci dà per la ripartenza?

«Parliamo di due problemi sostanziali, che possono essere molto utili nella ripresa e nel rilancio, anche e soprattutto in vista di questo grande piano di investimenti che il paese e le pubbliche amministrazioni stanno mettendo in piedi: il Pnrr. I due temi sono, da un lato il ruolo che la pubblica amministrazione può avere nel rilancio del Paese, e dall’altro il tema demografico. Sono due dei più importanti problemi che hanno impatto sulla crescita e sul dinamismo della società e dell’economia».

«Partiamo dal più grave, perché senza la parità gli altri problemi vengono meno per definizione. Due dati: l’Italia, nel 1951, poteva contare su una popolazione giovanile da 0 a 29 anni che rappresentava il 51, 6%. Oggi è il 28,8%. Lo stesso Draghi, allora presidente della BCE, nel 2016 diceva che questo gap è una generazione perduta, una lost generation. Se poi questi giovani, che sono anche di meno, non riescono a trovare occupazione, vanno all’estero, sono NEET, permangono in famiglia, hanno una scarsa o nulla partecipazione sociale: da una risorsa sprecata diventano anche un costo sociale. Una doppia beffa».

«A questo si unisce l’aumento sproporzionato della popolazione anziana. Noi come INPS stiliamo questo indice di invecchiamento, cioè il rapporto tra la popolazione con età maggiore di 65 anni sulla popolazione sotto i 14, che è in continuo aumento. Si è stabilizzato sopra il 50% ormai da qualche anno. Quindi, con dei rischi nella tenuta della sostenibilità».


«Affianco alla crisi demografica, lo diceva bene Peluffo, c’è un problema non solo di natalità, ma anche di scarsa partecipazione femminile. Aggiungo che c’è un problema di scarsa partecipazione al mercato del lavoro di una fetta importante del Paese, che riguarda il Sud e in particolare delle donne nel Sud», continua.

«Da una parte c’è una scarsa natalità, dall’altra c’è un utilizzo scarso di risorse nel Sud. Dall’altro ancora c’è una scarsa partecipazione del lavoro femminile e infine, le riforme del mercato del lavoro degli ultimi anni che, a mio parere, hanno flessibilizzato eccessivamente con punte di precarietà il lavoro stesso. Si è così contribuito a far accumulare redditi instabili, precari. Ad esempio, è molto diffuso tra le donne il lavoro part-time. Un part-time involontario, con una cifra che raggiunge l’86%».

«Il calo demografico solo in parte è stato compensato dalla partecipazione al mercato del lavoro da parte di stranieri. Oggi finalmente prende luce un provvedimento atteso da molto tempo: l’assegno unico. Una misura di sostegno alle famiglie. Proprio sul sito dell’istituto pochi giorni fa è partita questa misura, che a regime a gennaio del 2022, dovrà allargarsi anche all’intera popolazione. Oggi si indirizza principalmente ad autonomi, disoccupati e incapienti».

«Questi ultimi vengono incrementati di 37 euro a figlio, e di 55 euro in caso di più di due figli. Sono misure che produrranno effetti positivi, ma non nel breve periodo. Nel breve periodo abbiamo bisogno di allargare il contributo al lavoro e alla partecipazione al mercato del lavoro. Lo possiamo fare coinvolgendo donne, il Sud e il lavoro irregolare. Oggi abbiamo una popolazione molto simile alla Francia, al netto delle previsioni che si facevano, che ha poco più di 60 milioni. Però abbiamo una forza lavoro di 23 milioni, 10 milioni in meno rispetto alla Francia. 3 milioni e mezzo sono lavoratori in nero, che non risultano».

«Abbiamo questo grosso problema» spiega «che dovrebbe essere maggiormente aggredito, perché da qui potrebbe derivare un’ulteriore risorsa. Se questo lavoro emergesse potrebbe contribuire al gettito, alla previdenza e al welfare del Paese. La policy dovrebbe indirizzarsi, come sta facendo negli ultimi mesi, verso una priorità: la denatalità, con un sostengono alla famiglia importante. Ma anche con migliori policy di conciliazione tra lavoro e famiglia».

«L’esempio in Europa c’è. Sono quei Paesi che oggi vediamo proiettati con più alti tassi di crescita della popolazione come la Svezia, la Francia, il Regno Unito. E anche lì scopriamo che la partecipazione femminile al mercato del lavoro non è da ostacolo alla fertilità e alla natalità. Al contrario: laddove, come nel nostro Paese, c’è una scarsa partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne, i tassi di natalità sono anche più bassi. E non un paradosso. È la regola che redditi generati dalle donne siano correlati a una più alta natalità. È questa la normalità, nei Paesi avanzati funziona esattamente così».

«Il problema si aggraverà nel nostro Paese se non verrà adeguatamente invertita la tendenza. Soprattutto alla luce del fatto che i baby boomer, che sono nati negli anni ’60 e ’70, andranno in pensione tra qualche anno e non verranno rimpiazzati nel mercato del lavoro da nuove risorse. Soprattutto quando, chi è nato negli ultimi anni diventeranno forza lavoro, saranno diciottenni, venticinquenni, saranno meno rispetto alla capacità necessaria di ripiazzare i baby boomers che invece staranno uscendo dal mercato del lavoro».

«Questa è una priorità del paese. Interrompere questa tendenza è una priorità. Va aggredita sotto più punti di vista: con politiche per la famiglia, di sostegno al reddito, ma anche politiche di conciliazione. Quindi, anche con modalità di lavoro diverse. Il part time non deve essere una costrizione deve essere scelto, da uomini e donne. La paternità obbligatoria anche per i padri potrebbe essere una policy in grado di portare maggiore equality tra i generi. E per evitare anche che un imprenditore, davanti alla scelta di impiegare un uomo o una donna, scelga l’uomo perché sa che la donna potrebbe avere una gravidanza».

«La paternità obbligatoria nel nostro Paese abbiamo soltanto qualche giorni di paternity leave. In altri Paesi ci sono incentivi selettivi rivolti alle donne madri che tornano al lavoro. Molto spesso ci troviamo davanti all’odioso fenomeno delle dimissioni in bianco, cioè donne che danno le dimissioni in bianco, su richiesta dei datori di lavoro, poco prima della gravidanza. Prevedere, invece, degli incentivi, esoneri contribuitivi per l’assunzione di donne madri nel ritorno in azienda potrebbe essere utile».

«Qualche mese fa proponevo una norma che andasse esattamente in questa direzione, cioè a dire che se un’azienda assume una donna e questa donna nel giro di tre anni fa un figlio e va in maternità, al rientro questa azienda riceve un esonero contributivo per i successivi tre anni. Ecco, una norma di questo tipo andrebbe nella direzione di aiutare meglio, di conciliare famiglia e lavoro».

«Anche se sappiamo che il datore di lavoro onesto non dovrebbe avere bisogno di un esonero per assumere una donna o una madre. Ma anzi, non dovrebbe fare discriminazione, ma sappiamo che in alcuni settori e in alcune parti del paese, il fenomeno delle dimissioni in bianco che regista un numero intorno a 36 mila all’anno. È un fenomeno reale e dobbiamo farci i conti».

«L’altra questione che penso possa essere rilevante nel dibattito è il ruolo della pubblica amministrazione nella competitività del sistema Paese. La competitività delle imprese è un concetto che chiama in causa diversi aspetti, sia interni che esteri all’impresa, come l’organizzazione, l’innovazione delle strategie di marketing, ma anche l’ambiente, le relazioni sindacali, industriali, le infrastrutture del territorio. E, infine, le amministrazioni».

«La pubblica amministrazione deve essere efficiente, deve concedere prestazioni, deve dare servizi, e deve controllare la legittimità di questi servizi. Molto spesso controlli e semplificazioni non vanno sempre di paripasso. Il nostro Paese ha delle caratteristiche socioeconomiche molto particolari. Un economista che mi piace molto, Robert Patman, che già negli anni ’90 studiava l’Italia. Nel ’93 scriveva un libro, Making democracy work, e constatava che c’erano diversi livelli di fiducia nel nostro Paese. A livello regionale questa fiducia era fortemente correlato con la capacità delle pubbliche amministrazioni di incidere, di lavorare bene nei propri territori, ma anche di avere un impatto sullo sviluppo locale».

«Laddove questo capitale sociale, questa civicness, queste relazioni di fiducia verso le istituzioni e verso il prossimo fossero alte, gli aspetti di fluidità nella pubblica amministrazione e l’impatto sullo sviluppo economico erano positivi. Laddove, invece, questo capitale sociale fosse scarso, si sarebbe avuto un impatto negativo».

«Oggi riusciamo, purtroppo, a predire relazioni negative tra variabili che riguardano capitale sociale, la fiducia, la civicness con fattori di sviluppo. Sappiamo che lo Stato può incidere. La pandemia ci ha insegnato che Stato e mercato non sono in contrapposizione, non lo sono mai stati in realtà. Ci sono tanti contributi di economisti che parlano di un ruolo straordinario, soprattutto, negli investimenti ad alto contenuto tecnologico che lo Stato può avere. Un ruolo fondamentale per spingere più in alto la frontiera tecnologica e far crescere la produttività. Molte innovazioni, anche negli Stati Uniti, nel mondo di Internet of things, nella ricerca spaziale, nel mondo della difesa, che hanno avuto impatto anche nel settore civile, sono stati trainati dalla ricerca e dal settore pubblico».

«Le stesse Poste, secondo alcuni economisti, hanno avuto un impatto positivo nella diffusione dell’innovazione in quel Paese. Sappiamo che nel nostro Paese le dimensioni piccole delle aziende non garantiscono un tasso di investimento in tecnologia alto. Lì può avere un ruolo importante lo Stato. Sia nella pandemia, attraverso la protezione, l’estensione del welfare noi abbiamo speso 44 miliardi in più rispetto a ciò che spediamo ordinariamente per proteggere lavoratori che prima non conoscevamo», prosegue.

«Abbiamo servito prestazioni a circa 15 milioni in più di lavoratori: disoccupati, bonus, assegni alla famiglia, bonus babysitting, domestici, stagionali, venditori porta a porta, partite IVA, cassaintegrazione. Ordinariamente ci rivolgiamo già a un numero di utenti 42 milioni, tra lavoratori, pensionati, aziende e altri. I nuovi utenti non sarebbero stati aggiunti se il welfare del Paese non fosse dotato di una tale capacità, tecnica e informatica, e di una presenza sul territorio. Così come anche se non avessimo fatto negli ultimi mesi quelle innovazioni e quelle semplificazioni che sono molto importanti per garantire efficienza alla pubblica amministrazione».

«Negli ultimi anni abbiamo avuto un calo nella dimensione del settore pubblico. Oggi abbiamo una percentuale di occupati nel settore pubblico inferiore rispetto ai principali Paesi europei, se paragonata con la popolazione. Questo trend è stato in calo, tra il 2010 e oggi, praticamente in tutti i settori della pubblica amministrazione. Mi piace ricordare, però, che sia il Pnrr sia il nuovo stimolo che il ministero della Pubblica amministrazione sta dando, hanno lo scopo di incrementare l’organico. Perché ci siamo resi conto di quanto importante sia lo Stato: non solo per dare quei servizi, ma anche per implementare progetti ad alto valore tecnologico e spingere verso quella dimensione di digitalizzazione della pubblica amministrazione, per favorire la crescita del sistema Paese», conclude.

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