Non esistono più gli uffici studi di una volta. O forse sì. A lanciare l’allarme sulla mancanza di una elaborazione politico-culturale da parte di partiti, governo e ministeri è stato giorni fa Giuseppe De Rita, storico presidente del Censis. Spesso i principali osservatori lamentano una aridità dell’analisi della classe dirigente attuale rispetto a quella che ha reso possibile il miracolo del Dopoguerra. Di certo dopo la fine della Prima Repubblica, i partiti sono cambiati, hanno cambiato struttura divenendo più ‘leggeri’, la politica nel suo senso più ampio è stata criticata e si è spesso arresa alle istanze di semplificazione, taglio dei costi, dequalificazione.
Mentre l’Italia sta uscendo dalla pandemia e si appresta a utilizzare i fondi stanziati dalla Ue, in una dimensione che non è retorico definire storica, tanti ritengono che una riflessione più approfondita e soprattutto di lungo periodo sia necessaria. Si disegna una nuova Italia, emergono nuovi banchi di prova, dalla telemedicina a nuovi modelli economici. Ma l’intera architettura geopolitica sta mutando, i rapporti di forza e le alleanze stanno mutando. Governo e partiti sono pronti a queste sfide? Hanno gli strumenti adatti, hanno dei think tank alle spalle, siano essi contigui o indipendenti, che li aiutano? In Italia esistono molti istituti di studi, normalmente con interessi in ambiti specifici, pochi sono invece i think tank o le fondazioni vicine ai partiti rimaste e pochissime le fondazioni interne ai partiti.
Si pensi al ruolo che hanno avuto la Fondazione Einaudi, il Circolo Rosselli, Arel, Nomisma, il Mulino, della cui rivista si è appena festeggiato il 70° compleanno, oltre alle fondazioni delle principali aziende italiane. Oggi il panorama resta ricco, ma nessuno nasconde delle criticità, anche se molti dei direttori dei principali istituti vedono una luce in fondo al tunnel. Giampiero Massolo, presidente di Ispi, spiega che “abbiamo passato molti anni correndo appresso all’episodico e al contingente, la politica sembrava disinteressata e impermeabile a forme di approfondimento strategico che aiutassero a contestualizzare gli avvenimenti per trasformarli in elaborazione di opzioni alternative. Non solo in Italia, l’idea era che si dovesse rincorrere l’elettore invece di offrirgli dei progetti, gli si fornivano slogan attraenti piuttosto che programmi interessanti”.
Nel recente passato per Massolo “questo ha comportato la crisi di chi dell’elaborazione fa il suo compito istituzionale: i corpi intermedi e in particolare chi fa analisi politica, sociale ed economica”. Inoltre “l’elemento economico ha avuto un ruolo perché la ricerca non si fa senza finanziamenti” e questo ha influito sull’ampiezza della ricerca.
Dal canto loro i partiti “non hanno più ritenuto utile qualcosa che invece è ancora considerato centrale in altri paesi, si pensi alle Stiftung in Germania. Il dissolvimento dei partiti ha avuto come ripercussione il dissolvimento delle loro scuole”. E l’indebolimento degli istituti indipendenti e di quelli dei partiti si è trascinato dietro anche quello delle aziende. Ma proprio da questa prospettiva si vede una leggera inversione di tendenza. “Le aziende stanno riscoprendo il ruolo delle fondazioni” nota Massolo. Resistono “gli istituti più settoriali, che si sono mantenuti non tanto sulla base del sussidio pubblico che è venuto meno, quanto sul contributo dei privati interessati. Ispi è un esempio virtuoso, i finanziamenti pubblici sono scomparsi, sono rimasti i progetti cofinanziati, per larga parte l’attività è svolta per la nostra membership fatta di aziende piccole medie e grandi”.
Ora però Massolo vede una nuova ricerca di riflessione di lungo periodo: “Spero che questa tendenza si consolidi e si torni al gusto della riflessione. E Stato e privati devono trovare delle formule virtuose. Noi, ad esempio, abbiamo avuto l’iniziativa Med che è stata una vetrina molto importante”.
Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, racconta: “Sono anni che la classe politica non cerca questi approfondimenti. Prima perché si pensava che certi istituti avessero contiguità di interessi, ora perché l’orizzonte intellettuale è determinato da aumenti di spesa pubblica che per ora la classe politica italiana concepisce come illimitati. L’assenza attuale di vincoli di bilancio riduce drammaticamente il bisogno di scegliere, che è l’essenza della politica”.
Per Mingardi c’è poi un problema di “luoghi”: “c’è in Italia una crisi generale del dibattito pubblico, per avere eco le idee di un intellettuale devono trovare un dibattito pubblico; il tasso di lettura dei giornali è sceso”. Il talk show, che per Mingardi vive “una fase di malattia terminale” non aiuta più a creare questi luoghi, mentre un futuro paiono averlo, come veicolo, i podcast.
Eppure “il panorama della discussione intellettuale è molto più ricco di 10 anni fa, internet aiuta molto, basti pensare ai webinar”, ma molte realtà parlano più fuori che ai partiti politici. “Magari direttamente ai giovani come hanno fatto Quagliariello e Letta con le loro scuole, o a un pubblico internazionale come ha fatto Ispi sui social media”. Ma questo dibattito difficilmente ha un precipitato politico: “per parlare con la politica bisogna essere in due. Oggi il leader parla direttamente con il suo popolo, ogni intermediazione lo disturba e i think tank sono una intermediazione.
Poi ci sono leader che sono convinti che non esistano quadri di riferimento e tutto sia pragmaticamente negoziato al minuto. L’idea di mettersi degli occhiali per decifrare la realtà sfugge ed è considerata obsoleta”. “Penso che le cose cambieranno – conclude Mingardi – ma ora siamo in una fase di questo tipo”
Fabrizio Pagani, presidente di Minima Moralia, racconta la sua esperienza e fornisce una chiave di lettura ulteriore. “La società è più complessa e anche gli studi sono più globali, ora chiunque è in grado di leggere un paper di Ocse. C’è dunque un processo di disintermediazione: è diventato più facile influire anche senza essere strutturati, questo facilita il flusso di idee ma incide sul piano dell’autorevolezza. In Italia il dibattito che c’è stato sul Pnrr è stato forte, ma la frammentazione rischia di incidere sull’autorevolezza”. Il rischio è di non essere interessanti per la politica e dunque per Pagani lo sforzo da fare è innovare le modalità organizzative dei think tank.
Gaetano Quagliariello, presidente della Fondazione Magna carta, che nel 2023 festeggia i suoi primi vent’anni, ammette: “gli ultimi anni sono stati difficili, siamo ormai un’organizzazione di volontari. Le attività come la nostra sono state scoraggiate, e altre volte vilipese. Scoraggiate dal clima generale, sono attività che si fondano sulla libera contribuzione, e se questa contribuzione non solo non porta nessun pregio sociale, ma addirittura ingenera un sospetto, diventa difficile trovare chi supporta le fondazioni. Dall’altra parte c’è chi ha utilizzato i think tank come strumento alternativo del finanziamento pubblico della politica. Se ci fosse stato più rigore da parte di tutti sarebbe stato più difficile criminalizzare le fondazioni. Per questo avevo proposto un registro delle fondazioni, che quando qualificano la classe dirigente hanno una funzione pubblica”.
Ma il minore o maggiore scollamento tra i diversi luoghi di analisi e la politica, per Quagliariello, dipende dai governi e dai partiti, che negli anni si sono comportati in modo diverso. “Io – spiega – ritengo che uno dei problemi del centrodestra è non aver costruito una cultura politica di riferimento, spero che ci sia il tempo per emendare questo errore. Il problema è che non si è mai riusciti a fare il salto dagli uffici studi dei partiti ai think tank, che dovrebbero avere una loro autonomia”.
Anche a sinistra molti hanno lamentato una scarsità di elaborazione, pur in presenza di molti centri studi, o quantomeno la mancanza di un ascolto da parte delle forze politiche. Ultimamente nel Pd qualcosa si sta muovendo, del resto Enrico Letta è stato rettore di SciencePo a Parigi negli ultimi sei anni. I dem hanno da tempo una fondazione, guidata da Gianni Cuperlo, e il primo pensiero del nuovo segretario è stato lanciare le “agorà democratiche”, che saranno una riflessione collettiva sulla democrazia in Italia con una prospettiva di lungo periodo. “Quello che noi abbiamo fatto sul pnrr, collegandoci con studiosi ed attori interessati come parti sociali ed economiche – spiegano dal Pd – cercheremo di riprodurlo anche in futuro, per noi è un vero e proprio metodo”.
Guido Crosetto, imprenditore già fondatore di FdI, fa notare che Giorgia Meloni “appena arrivata alla guida del partito ha messo in piedi un centro studi, piccolo come lo erano le nostre forze, per supportare il lavoro dei gruppi di Camera e Senato”. Ma è vero che “la politica fa normalmente ciò che serve per far guadagnare il consenso; una politica di lungo periodo in questi anni non porta consenso, già un tweet è troppo articolato, meglio dire uno slogan di quattro parole. Le conseguenze però sono quelle che vediamo: se nelle aziende avessimo applicato la stessa teoria applicata al dibattito pubblico non ce ne sarebbe una ancora aperta”.
Crosetto poi alza il tiro e punta direttamente al cuore dello Stato: “sono convinto che ci vorrebbe un centro di coordinamento pubblico, che coordini appunto il lavoro che fanno le diverse energie dello Stato che messe in sinergia superano qualunque think tank”.
Anche la Lega ha fondazioni di riferimento anche in collegamento con altre forze politiche europee e Forza Italia attinge storicamente ad alcuni istituti di ricerca, mentre l’elaborazione nel M5s segue vie più innovative ma e’ presente. L’auspicio di tutti ora è che il rapporto virtuoso tra intellettuali e politici, che ha spinto l’Italia del Dopoguerra facendola uscire dalla devastazione lasciata dal conflitto mondiale, possa rinnovarsi per supportare il Paese nell’uscita dalla pandemia








