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La crescita resta inferiore alle previsioni del governo | L’analisi di Sergio De Nardis su Inpiù

La stima anticipata dell’Istat segnala che il Pil nel IV trimestre 2023 è andato meglio delle attese (+0,2%, contro aspettative di crescita nulla se non lievemente negativa). Un’evoluzione che era stata comunque suggerita dal nuovo indicatore RTT, appena diffuso dal Centro Studi Confindustria, basato sulle fatture elettroniche. Il PIL è stato sostenuto nell’ultima parte dell’anno dalla corsa delle costruzioni in vista della fine del superbonus (ciò è particolarmente evidente dal boom di fatturazione in dicembre) e dai servizi, presumibilmente sempre trainati da turismo e attività correlate. La manifattura si è contratta, a fronte della stretta creditizia e di un commercio mondiale debole e che stenta, dopo qualche tentativo, a ripartire. L’agricoltura ha subito una nuova flessione.

Dal lato della domanda, sono state le esportazioni nette a sostenere l’attività economica, risentendo probabilmente di fiacche importazioni. La spesa totale interna ha invece fornito un contributo negativo, anche per la presumibile prosecuzione del ridimensionamento delle scorte. Nello stesso periodo, il Pil è sceso in Germania (-0,3%), è rimasto fermo in Francia ed è aumentato in Spagna (+0,6%). La crescita italiana nel 2023, a parità di giorni di lavoro, si attesta allo 0,7%, che dovrebbe corrispondere a uno 0,6% senza la correzione per le giornate lavorative (0,8% nella previsione Nadef).

Il risultato più robusto delle attese di fine 2023 non sembra, però, in grado di modificare granché la prospettiva. Il trascinamento dell’anno passato sul 2024 è pari allo 0,1%, meglio di zero o di un dato negativo, ma non tale da spostare l’attuale ‘consenso’ dei previsori (crescita del PIL nel 2024 intorno allo 0,5% a parità di giornate lavorate, allo 0,6-0,8% non correggendo per i giorni, contro l’1,2% della Nadef). Occorrerà verificare a inizio 2024 come evolvono le costruzioni che subiscono, da un lato, il ridimensionamento degli incentivi e la morsa dei tassi d’interesse e beneficiano, dall’altro, dell’accelerazione delle spese del Pnrr.

Così come ci si deve interrogare sulla tenuta dei servizi, ‘corpaccione’ (70% del PIL) che ha tenuto in piedi, insieme all’edilizia, la congiuntura degli ultimi anni: gli extra-risparmi dei lockdown che hanno contribuito a finanziare la voglia di spendere post-pandemia di italiani e stranieri, a dispetto dell’impennata dei prezzi, stanno attenuando i loro effetti. D’altro canto, l’inflazione ha preso a scendere rapidamente soprattutto in Italia e ciò sostiene il potere d’acquisto delle famiglie e consumi forse in parte diversi da quelli turistici. Il ridimensionamento della dinamica dei prezzi, accompagnandosi ad abbassamento delle aspettative, inasprisce peraltro la stretta monetaria, pur in presenza di costanti tassi di policy della Bce.

Questo avviene in particolare nei paesi come il nostro, dove l’inflazione cala più velocemente. I tempi di reazione di Francoforte alla disinflazione contano quindi nel disegnare la prospettiva. A ciò si aggiunge l’incertezza sulla dinamica del commercio mondiale, su cui incide la possibilità o meno che la Cina torni a crescere a tassi più sostenuti. In definitiva, a inizio 2024 rimangono aperte diverse ‘porte’ congiunturali suscettibili di modificare in peggio o (si spera) in meglio le attuali previsioni di consenso. Sempre che la geopolitica non scarichi nuovi shock sull’economia.

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