Il Cnel ha recentemente licenziato il suo Rapporto sulla produttività 2025.
Un lavoro completo e ben curato, in cui si indagano le possibili ragioni di un rallentamento nella crescita della produttività del lavoro, che è tratto comune a tutti i paesi sviluppati, ma che si configura addirittura come ristagno e in alcuni anni come vero e proprio declino nel nostro Paese.
Tutti gli Stati sviluppati condividono la progressiva riduzione della quota di Pil prodotta dall’industria e l’ampliamento della quota dei servizi, dove la misurazione della produttività è più problematica e dove comunque cresce più lentamente perché le innovazioni entrano con ritardo e solo in alcuni comparti.
A questo si aggiunge, per l’Italia e la Spagna, il crescente peso occupazionale dei servizi turistico-alberghieri e dei servizi sanitario-assistenziali (a causa dell’invecchiamento della popolazione), dove la produttività necessariamente cresce pochissimo.
Meno attenzione viene data alla domanda, ovvero al fatto che la scarsa crescita della produttività è in gran parte dovuta alla bassa crescita del Pil (e non viceversa) e in particolare degli investimenti.
In Italia, gli investimenti totali netti sono stati negativi dal 2012 al 2020 e quelli pubblici dal 2011 al 2022.
Anni in cui si è distrutto capitale privato e pubblico e in cui la spesa per ricerca e sviluppo ha a malapena coperto i magri stipendi dei ricercatori.
Da non trascurare poi il nesso che esiste tra salari stagnanti e produttività stagnante.
Il senso comune tende a dire che i salari non crescono perché la produttività non cresce, ma ci sono solidi motivi per ritenere che valga anche (soprattutto) la direzione di causalità opposta.
“Pay them more” diceva il presidente americano Biden.
Forse, se lo facessimo, e lasciassimo crescere la domanda e il Pil un po’ di più, anche la produttività ne beneficerebbe.








