Analisi, scenari, inchieste, idee per costruire l'Italia del futuro

Alessandra Perrazzelli, VDG Banca d’Italia: “I progressi su gender gap lavorativo sono insufficienti: ancora poche donne ai vertici delle aziende” | L’intervento

women_labour_markets_growth_n26

Riportiamo di seguito il testo integrale dell’intervento di saluto odierno della Vicedirettrice Generale della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli al convegno “Le donne, il lavoro e la crescita economica”, organizzato a Roma dalla Banca d’Italia.

«Buongiorno,
È con grande piacere che rivolgo a Voi tutti il mio saluto questa mattina e vi ringrazio per essere intervenuti a questo convegno. Oggi ci troviamo qui per analizzare e discutere del ruolo delle donne nel tessuto produttivo italiano, un tema a me molto caro. Non è la prima volta che in Banca dedichiamo delle giornate di studio a questi argomenti: il primo evento risale a undici anni fa. È naturale e doveroso, pertanto, interrogarsi sui cambiamenti intervenuti da allora.

Le ricerche presentate e discusse nel 2012 riguardavano vari aspetti, incluso il rapporto tra le donne e il mondo bancario e finanziario. I risultati delle analisi testimoniavano i significativi ritardi del nostro sistema economico nel garantire alle donne pari opportunità. nella vita economica e sociale. Oggi ci focalizziamo su uno specifico aspetto, che sta alla radice di molte delle disuguaglianze: le donne e il lavoro. Nel 2012 in Italia il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro era pari al 53,2 per cento, 20 punti inferiore rispetto a quello maschile; nei dieci anni successivi il tasso di attività femminile è aumentato di 3,3 punti, il doppio di quello degli uomini, e nel primo trimestre del 2023 ha raggiunto il livello più alto dall’inizio delle serie storiche, il 57,3 per cento.

Questa tendenza positiva va inquadrata nel complessivo miglioramento della qualità del capitale umano. Già da almeno un paio di decenni le donne sono circa il 56 per cento dei laureati ogni anno. Nel 2022 le laureate in discipline scientifiche e tecnologiche sono state circa il 20 per cento in più rispetto al 2012. Un ulteriore tangibile risultato positivo riguarda la presenza femminile negli organi di amministrazione delle società quotate, pari a circa il 43 per cento nel 2022 a fronte del 7,4 per cento nel 2011: tale aumento è principalmente attribuibile all’attuazione della legge Golfo-Mosca.

Nonostante queste tendenze positive i progressi registrati durante lo scorso decennio sono del tutto insufficienti: il tasso di partecipazione femminile si colloca ancora su un livello particolarmente basso nel confronto europeo, inferiore di quasi 13 punti percentuali rispetto alla media UE. È ancora al di sotto di quel 60 per cento che era stato indicato come obiettivo da raggiungere entro il 2010 dall’Agenda di Lisbona e dei traguardi impliciti nell’Agenda Europa 2020 che avrebbero comportato per l’Italia un sostanziale allineamento della partecipazione femminile alla media europea.

Altri paesi, come ad esempio la Spagna, che negli anni Novanta partivano da condizioni simili a quelle dell’Italia, hanno fatto registrare tendenze significativamente migliori. La crescita della partecipazione femminile osservata durante lo scorso decennio è stata trainata dalle donne con almeno 50 anni, anche per effetto delle riforme pensionistiche. Tra le più giovani, di età compresa tra i 25 e i 34 anni – la fase della vita nella quale si terminano gli studi, si inizia a lavorare e si gettano le basi per costruire una famiglia – la partecipazione è rimasta stabile a circa il 66 per cento, anche in questo caso uno dei valori più bassi in Europa.

Non ne ha beneficiato la natalità, che nelle economie avanzate tende ad essere positivamente correlata con la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nel Mezzogiorno, a tassi di partecipazione particolarmente bassi per entrambi i generi si associa un divario uomo-donna pari a oltre 25 punti percentuali nel primo trimestre di quest’anno (circa 14 punti nel Centro Nord). Alle complesse problematiche dell’economia delle regioni del Mezzogiorno abbiamo dedicato una giornata di studio lo scorso anno, durante la quale i temi del mercato del lavoro sono stati ampiamenti dibattuti.

Anche i dati relativi ai successi delle donne laureate vanno interpretati secondo una visuale più ampia. Nonostante la crescita registrata nel numero di laureate nelle discipline STEM le donne che si laureano in materie scientifiche sono ancora solo il 15 per cento delle laureate totali (il 33 per cento tra gli uomini), suggerendo pertanto che vi sono ampi margini per ulteriori progressi in questo campo. Il divario salariale tra uomini e donne si attesta in media intorno al 10 per cento, un livello solo di poco inferiore a quello stimato per il 2012. Le carriere delle donne sono particolarmente lente e discontinue. La maggiore presenza delle donne nelle società quotate non ha indotto significativi cambiamenti nella composizione dei vertici delle società sottoposte alla normativa sulle quote di genere.

Per imprimere un’accelerazione alla diffusione della presenza femminile anche nei vertici delle banche non quotate, la Banca d’Italia ha modificato le Disposizioni di vigilanza sul governo societario delle banche, sostenendo il valore della diversità. È stata così introdotta una quota minima per il genere meno rappresentato del 33 per cento negli organi di amministrazione e controllo, da attuare con la necessaria gradualità a seconda delle dimensioni delle banche. Sulla scia degli studi condotti e presentati nel convegno del 2012 abbiamo avviato numerose iniziative volte a promuovere l’educazione finanziaria nella popolazione, con un occhio di riguardo alle donne, in quanto finanziariamente più vulnerabili e meno abituate a gestire autonomamente i propri risparmi.

In particolare, il corso di finanza personale “Le donne contano” è disponibile dal 2020 sul nostro sito l’Economia per tutti e diffuso sul territorio attraverso le nostre Filiali, anche in collaborazione con associazioni e altri enti. All’inizio del 2020, qualche settimana prima dello scoppio della pandemia, è stata avviata una linea di ricerca sulle donne nel mercato del lavoro italiano che ha coinvolto 30 ricercatori della Banca d’Italia; questi, spesso insieme con alcuni ricercatori ed economisti del mondo accademico, hanno prodotto 20 working papers sul tema, riassunti in un Rapporto, che [già oggi/presto] verrà pubblicato sul sito della Banca e che [oggi] discutiamo con il mondo accademico e della politica economica.

Rispetto a undici anni fa si sono resi disponibili dati migliori, che in molti casi hanno permesso di osservare l’evolversi di una parte significativa della vita scolastica e lavorativa delle donne, permettendo quindi di evidenziarne gli snodi cruciali. Oggi sono a disposizione più avanzate tecniche di misurazione e di stima, nonché una vasta letteratura internazionale, che permette di comprendere meglio le problematiche specifiche del mercato del lavoro femminile italiano e indicare le strategie da seguire. Possiamo pertanto affermare che una parte rilevante dei divari dipende dalla scelta del percorso scolastico. Nonostante le ragazze siano mediamente più brave fin dalla scuola dell’obbligo, queste tendono poi a prediligere indirizzi di studio associati a rendimenti inferiori nel mercato del lavoro. Ciò vale sia per chi decide di conseguire solo il titolo di scuola secondaria superiore sia per coloro che intraprendono studi universitari.

Ancora oggi barriere culturali disincentivano troppe ragazze a non cimentarsi con lo studio di quelle discipline, non solo scientifiche, che sono associate a migliori prospettive occupazionali e salariali. Queste barriere comportano un costo significativo per le donne che si manifesta immediatamente dopo il termine del percorso di istruzione: a un anno dalla laurea il divario salariale uomo-donna è già pari al 13 per cento; è del 16 per cento dopo un anno dal diploma, per coloro che decidono di non proseguire gli studi.

Queste differenze non si riducono nel corso della vita lavorativa, ma addirittura si accentuano, soprattutto dopo la nascita dei figli. Oggi siamo in grado di stimare quella che nella letteratura viene definita la child penalty, cioè la penalizzazione nel mercato del lavoro subita dalle donne in seguito alla nascita del primo figlio. Nonostante questa si sia ridotta negli ultimi decenni, la probabilità per le donne italiane di non avere più un impiego nei due anni successivi alla maternità è quasi doppia rispetto alle donne senza figli; questa differenza, benché si attenui nel tempo, è rintracciabile almeno fino a 15 anni dalla nascita del primogenito.

A causa di questi ritardi, verso la fine della carriera lavorativa, le donne che appartengono al decimo superiore della distribuzione salariale guadagnano in media il 30 per cento in meno rispetto agli uomini che si trovano nell’ultimo decimo. Questa disparità riflette anche il fatto che le donne hanno difficoltà a raggiungere posizioni di vertice all’interno delle aziende, e spesso lavorano in settori che offrono compensi mediamente più bassi. Di conseguenza, anche i redditi pensionistici delle donne risultano significativamente inferiori. La giornata di studio di oggi mostrerà con maggiore dettaglio gli spunti trattati in questo mio indirizzo di saluto, descrivendo le diverse dimensioni del divario di genere alla luce dei risultati delle ricerche. Ciò che emerge dalle analisi è che occorre agire con decisione su vari fronti contemporaneamente.

È auspicabile una riflessione sulle caratteristiche del sistema scolastico al fine di attuare tempestivamente politiche che possono aiutare a superare gli stereotipi culturali che allontanano le ragazze dallo studio delle materie scientifiche, anche guardando alle esperienze e alle strategie attuate in altri paesi. Con riferimento alla maternità già nel 2012 avevamo evidenziato come gli strumenti di conciliazione principali tra le esigenze di cura dei figli e il lavoro siano i servizi per l’infanzia, di qualità elevata e ampia accessibilità in tutte le aree del Paese. In Italia solo un bambino su quattro frequenta un asilo nido, un valore tra i più bassi in Europa. Le carenze sono particolarmente marcate nelle regioni meridionali: in molte di queste non più del 15 per cento dei bambini da zero a due anni può accedere all’asilo nido.

I padri devono essere chiamati a un maggiore coinvolgimento nella cura dei figli: il potenziamento del sistema dei congedi riservati ai padri e la rimozione degli ostacoli culturali all’utilizzo di tali strumenti sono necessari per ripartire più equamente il compito, ma anche il piacere della cura dei figli. Oggi un padre su due non usufruisce del congedo parentale obbligatorio pur avendone diritto. Sarebbe auspicabile anche la rimozione di quegli ostacoli impliciti nel nostro sistema di tassazione e trasferimenti, affinché la necessaria equità nel redistribuire le risorse non disincentivi l’offerta di lavoro, più spesso quella femminile. Trasferimenti che sono commisurati al reddito da lavoro familiare e decrescono bruscamente all’aumentare di questo possono indurre il secondo percettore di reddito, tipicamente la donna, a rinunciare alla ricerca di un impiego.

L’esperienza degli altri paesi mostra anche che per favorire la presenza delle donne nelle professioni meglio retribuite e nelle posizioni di vertice, la promozione di figure femminili in ambiti professionali diversi da quelli tradizionali può accrescere la consapevolezza delle diseguaglianze di genere e degli stereotipi che le originano. Anche politiche di impresa che introducano un’organizzazione del lavoro più flessibile, sistemi di welfare aziendale a sostegno della cura dei figli possono facilitare i percorsi di carriera delle donne.

Nel trattare oggi questi temi, vorrei sottolineare che i divari che ho menzionato e più in generale la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro limitano le prospettive di crescita economica dell’Italia. Le analisi sui paesi avanzati mostrano che a una più alta partecipazione femminile si associa un reddito pro capite significativamente più elevato: ciò non dipende solo dal fatto che una data espansione dell’offerta di lavoro porta nel lungo periodo a un aumento del prodotto; la letteratura economica mostra anche che una migliore allocazione dei talenti di uomini e donne sostiene la crescita della produttività a livello aggregato.

Un’accelerazione del processo di convergenza del tasso di partecipazione delle donne italiane sui valori medi europei è fondamentale alla luce delle attuali tendenze demografiche. Secondo le proiezioni dell’Istat l’invecchiamento della popolazione comporterebbe da qui al 2040 un calo di circa 4 milioni di persone nella fascia d’età tra i 15 e i 74 anni. Politiche che mirino a chiudere nei prossimi dieci anni il nostro divario nei tassi di partecipazione rispetto all’Europa potrebbero attenuare significativamente queste tendenze.

Promuovere la parità di genere vuol dire innanzitutto sostenere l’uguaglianza, evitare casi di discriminazione e porre rimedio ai fallimenti di un mercato che fatica a sviluppare e ad allocare in modo efficiente le capacità professionali, in particolare quelli femminili. La direzione verso cui si sta andando è quella giusta, ma i progressi sono troppi lenti e ampiamente incompleti. Spero che la giornata di oggi consenta una fruttuosa discussione e possa contribuire a diffondere una maggiore consapevolezza dell’importanza della promozione della parità di genere nel mercato del lavoro. Auguro quindi buon lavoro a tutte e a tutti».

SCARICA IL PDF DELL'ARTICOLO

[bws_pdfprint display=’pdf’]

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi gli ultimi articoli di Riparte l’Italia via email. Puoi cancellarti in qualsiasi momento.

Questo sito utilizza i cookie per migliorare l'esperienza utente.