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Parlare di guerra fa bene alla pace | L’analisi di Gabriele Segre

Gabriele Segre sulla Stampa descrive il paradosso di come “parlare di guerra faccia bene alla pace”: “Il mondo – scrive l’editorialista – non è sull’orlo di un’apocalisse nucleare. Questo non significa che i rischi di conflitti locali svaniscano — anzi, per chi li vive restano drammaticamente incombenti. Ma proprio l’arretramento dello spettro di uno scontro globale rappresenta uno dei cambiamenti più controintuitivi della politica internazionale di questi mesi, e merita di essere osservato con attenzione.

Ci si stringe la mano proclamando di essere preparati a combattere. E si spera che nessuno lo faccia davvero. L’Ucraina è diventata il simbolo di questo disimpegno dal confronto geostrategico. All’inizio appariva come uno scontro per procura tra Russia e Stati Uniti, combattuto nel cuore dell’Europa: da un lato Biden, deciso a riaffermare l’America come custode dell’ordine mondiale e garante universale del diritto e della pace; dall’altro Putin, intenzionato a porsi come antagonista di quell’egemonia e a dimostrarne i limiti.

Ma l’incontro in Alaska ha mostrato con chiarezza che l’oggetto del contendere è cambiato: per gli Stati Uniti la guida del mondo esclusiva non è più una priorità e il fronte ucraino è stato declassato da prova di forza tra superpotenze a conflitto continentale. Meno minaccioso per il mondo, molto più pericoloso per noi europei, che in quel continente viviamo.

Per l’Europa, essere improvvisamente lasciata sola di fronte alla guerra, dopo quasi un secolo in cui le decisioni arrivavano da Washington, è uno shock difficile da metabolizzare. Da qui nasce l’indecisione europea. C’è chi vede l’impegno in Ucraina come uno scontro di civiltà: la libertà delle democrazie minacciate contro il sopruso della dittatura tirannica, temendo una resa che spianerebbe la strada ad altre invasioni.

E c’è chi, in nome di un iperrealismo, è pronto al compromesso con Putin, preferendo il rischio di un nuovo “appeasement”, con tutti i fantasmi che si porta dietro, alla certezza di un nuovo grande conflitto nel cuore del continente.

Esiste un’alternativa al vicolo cieco che ci condanna a scegliere tra due posizioni tanto diverse quanto entrambe destinate a un esito catastrofico. Per trovarla dobbiamo riprendere a pensare come fanno le superpotenze: capire che parlare di guerra – conclude – non significa necessariamente disporsi a farla, ma, anzitutto, preparare la strada per la pace”.

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