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[L’intervista] Luigi Scordamaglia (Filiera Italia): «Ci sono milioni di lavoratori appesi a una bottiglia di vino. Come al nostro olio, ai nostri formaggi tipici, alle nostre carni. Ecco la tempesta perfetta che può travolgerli»

Per spiegarti perché il mondo dell’Alimentare è impazzito, Luigi Scordamaglia parte da una bottiglia.

«Ogni ristorante che chiude è un pezzo di filiera che muore. L’Amarone al discount è follia. Stiamo svendendo il vecchio raccolto e non abbiamo le braccia per il prossimo. Ecco perché una bottiglia non è un dettaglio, ma un campanello di allarme».

Scordamaglia, consigliere delegato di filiera alimentare è un uomo a cavallo tra mondi, uno di quelli che in questo paese sono preziosi per illuminare un settore e provare a spiegarlo.

Ed infatti prova a spiegarmi un intero mondo a partire da un dettaglio: “Immagina una serata-tipo come tante di quelle che ci capitavano prima della Pandemia: te ne andavi a cena in una bella trattoria, magari consigliata da un amico, oppure trovata su una buona guida. Non ci sei mai stato prima”. E poi? “L’oste ti consigliava un buon vino, ad esempio un Amarone. Tu tornavi a casa felice e ti segnavi il nome di una cantina”. Esatto. “E cosa accadeva poi?

“Il giorno dopo quel vino te lo ricompravi. E lo facevi provare agli amici, e in poco tempo si creava l’effetto tam tam che in questi anni ha fatto la fortuna di tanti produttori. Questo congegno funzionava benissimo – sottolinea Scordamaglia – ed era uno dei motori del mercato italiano”.

Ma non è più così. Il mercato italiano ha perso un potentissimo effetto-vetrina. E questo discorso, avverte il dirigente di libera alimentare, si può moltiplicare per molti altri prodotti: il nostro vino, i nostri formaggi, il nostro olio, il cibo di qualità, insomma, avevano nella ristorazione diffusa un doppio volano.

Da un lato la vendita diretta – l’oste che ti consiglia – dall’altro uno indiretto altrettanto importante: scopri e acquisti.

Il problema di oggi, nel mondo dell’alimentare è che questo circuito si è interrotto. La pandemia ha colpito al cuore i canali che si erano costruiti in questi anni: “l’osteria di media dimensione è la più danneggiata – racconta Scordamaglia – fatica a riaprire. E quella stessa bottiglia di Amarone, oggi, puoi trovarla in vendita in un discount, come è capitato a me, a 9 euro e 90. E non è una buona notizia”.

Chiedo ingenuamente se per il consumatore non sia un vantaggio.

Scordamaglia mi fulmina: “Noooo!!! Non scherziamo. E non solo perché non è uno sconto sano, né duraturo! Ma perché è una liquidazione sottocosto. Ti faccio un altro esempio: in questi giorni abbiamo visto anche le angurie a un centesimo al chilo. È una follia!”.

Chiedo perché. Scordamaglia Sorride: “Perché è troppo poco. Calcoliamo che 10 chili costano 10 centesimi, meno del costo dell’acqua necessaria a produrre una anguria. Cioè nulla. Sai cosa significa questo? Che una intera filiera esplode: si svende un raccolto, o un’annata di vino, senza rientrare dei costi, per fare cassa nell’emergenza. Ma poi non ci sono le risorse per coprire il raccolto successivo. Si inizia tagliando un ramo, si finisce per mettere a rischio l’intero albero”.

Ed ecco che da una singola bottiglia siamo già passati al problema di un intero ciclo produttivo.

“Sai cosa sta accadendo con la prossima vendemmia? In molti casi si sta creando un problema enorme, perché la regolarizzazione degli immigrati che facevano la raccolta in agricoltura non ha portato i risultati previsti”. Dal punto di vista burocratico, per colpa del Covid, ovviamente, ma creando un ingorgo ulteriore: “È un altro cortocircuito terribile: il virus rallenta l’arrivo dei raccoglitori dai Paesi di residenza, li fa scarseggiare, e rallenta anche tutte le procedure di assunzione quei lavoratori. Per quello che prima si sbriga a in tre giorni – spiega Scordamaglia – ora non basta un mese”. 

Sembra incredibile, ma non è finita qui: “Stiamo correndo, per la seconda volta, dopo la primavera, il rischio di buttare via molti dei nostri raccolti. Eppure una soluzione c’era e c’è”. Quale? “Mi viene in mente un voucher speciale, post epidemia, per poter assumere e regolarizzare rapidamente senza burocrazia anche chi arriva da altri settori in difficoltà occupazionale. Speriamo che il governo ci ripensi. Ma posso tornare alla bottiglia di vino da cui siamo partiti?”.

Ovviamente sí: “Abbiamo la bottiglia della nostra cena, quella dell’anno scorso, in svendita sottocosto. E la nuova bottiglia che ci deve arrivare, quella del prossimo anno, che potrebbe non prodursi più. Il sottocosto della prima svaluta anche il prezzo della seconda, che a questo punto non è più conveniente mettere sul mercato. Per giunta il ristorante dove si vendevano entrambe è chiuso perché non ha riaperto”.

Uno scenario terribile: “Ci sono milioni di lavoratori appesi a quella bottiglia di vino. Come al nostro olio, ai nostri formaggi tipici, alle nostre carni. Ecco la tempesta perfetta da evitare a tutti i costi”. La prima domanda che viene in mente è scontata. “Come?”. Scordamaglia sorride: “Vede, il punto è questo: abbiamo parlato per tanti anni dell’importanza sociale della classe media e della piccola impresa nella società italiana. E il ceto medio impoverito era una delle cause della crisi”.

In effetti se ne è discusso per anni.

Scordamaglia vede un’analogia importante: “Adesso c’è un altro ceto medio a rischio, altrettanto importante. Stiamo scoprendo che il lockdown e la paura del post-Covid hanno colpito i consumi, e soprattutto una categoria: la «middle class» della ristorazione, il grande polmone del made in Italy. Ecco perché bisogna impedire a tutti i costi che quei locali chiudano”.

Il consigliere di filiera alimentare ha uno slogan perfetto per questo scopo e lo prende in prestito dal cinema: “ ‘Salvare il soldato Ryan’ oggi, significa salvare le osterie, i ristoranti a conduzione familiare, i piccoli locali tipici”. Ipotizzo l’idea che si potrebbe non riuscirci.

Scordamaglia quasi si arrabbia: “Non sia mai. Sparirebbe una fetta enorme di Pil italiano”.

Ecco che – come sempre in questi ritratti – è giunto il momento di scoprire qualcosa di più sul nostro eroe. Luigi Scordamaglia per vivere fa l’amministratore delegato del settore carni nel gruppo Cremonini (il colosso della produzione italiana). È uno dei grandi registi del mondo del food italiano,  ha diretto la Confindustria Alimentare, è l’uomo che – lasciato quell’incarico – ha celebrato il matrimonio tra i produttori e l’industria alimentare.

In questo lungo dialogo gli chiedo di spiegarmi perché – secondo lui – l’unico modo per uscire dalla crisi è difendere insieme il made in Italy e «il grande popolo delle osterie». Così iniziamo a parlare di un po’ di dati necessari per capire. “In fondo, dice Scordamaglia è tutto molto semplice”.

L’industria del cibo, dice, è stata in questi anni la nostra gallina dalle uova d’oro. Prima della pandemia, s’intende.

Questo mercato, prosegue, un anno fa stava esplodendo nei consumi sia interni che esterni. I traini degli ultimi anni erano stati esportazione e ristoranti: “Pensa – aggiunge per fare un esempio – che su 250 miliardi di consumi interni 84 miliardi, il 34 per cento- un terzo ! – erano veicolati dalla ristorazione”.

Se poi si passa all’export i dati erano simili: “Immagina che nel 2019 (prima del virus) eravamo al più 5 per cento e nei primi tre mesi del 2020 eravamo addirittura al più 9 per cento”. E poi c’era un grande discrimine che in questo mondo aveva creato un prima e un dopo, come lo spartiacque di un’epoca: Expo. “Milano per noi – dice Scordamaglia – è stato un evento incredibile che ci ha trainato per anni, e che ancora oggi ha continuato a trainarci avendo mostrato per la prima volta al mondo il nostro modello agroalimentare di efficienza sostenibile”.

Chiedo a Scordamaglia se ci sia un segnale di recupero. Mi risponde così: “La ripresa riguarda l’export agroalimentare. Ma siamo ancora tre/quattro punti sotto lo scorso anno. Germania e Stati Uniti sono i primi mercati dove esportiamo. Nel mondo del cibo, in questi anni, le geopolitica si è fusa in modo inscindibile con il mercato”.

Ed ecco un esempio illuminante: “Era bastato un annuncio di Donald Trump sui dazi a far crollare i prezzi delle nostre eccellenze esportate verso gli Stati Uniti. Poi Il presidente Usa ha chiarito che il vino, l’olio e la pasta italiani sono stati esentati: ed è bastata questa notizia per  far salire e scendere come una borsa il nostro mercato”.

Inutile chiedere se la politica dei dazi abbia un qualsiasi senso. Scordamaglia mi risponde con un sorriso: “Dal punto di vista alimentare per gli Stati Uniti l’effetto è uno solo. Difendere la produzione americana soprattutto di falsi: il cosiddetto ‘Italian sounding’”. Il fake è la vera bestia nera della nostra produzione:  prima del Covid, ovviamente, ma a maggior ragione dopo”.

Perché il vino è uno dei prodotti più colpiti dal lockdown? “Per il meccanismo che le ho detto, in Italia, e per quello che abbiamo appena visto, fuori. In questo congegno darwiniano che si è creato la ristorazione di qualità resiste meglio perché in una situazione di sofferenza chi ha dimensioni maggiori ha più risorse per combattere”.

Scordamaglia non ha dubbi: “Questo riguarda sia le grandi catene sia gli chef. Penso, ad esempio, ad uno chef come Davide Oldani, che ha affermato di aver riaperto, pagato i fornitori in tempo reale per finanziarli nella crisi e assunto nuovi dipendenti. Gli chef stellati si sono difesi. Non tutti, ovviamente, perché è venuto meno il mercato dei gourmet cosmopoliti che giravano il mondo a caccia del meglio”.

Ma la stragrande maggioranza dei circa 150 mila ristoranti italiani, aggiunge il Consigliere di filiera alimentare, sono realtà medio-piccole che stanno ancora lottando per la sopravvivenza.

Diverso è il discorso delle grandi catene: “Hanno avuto qualche arma in più: gli spazi e l’organizzazione, per poter praticare il distanziamento sociale,  ad esempio” hanno perso qualcuno dei loro coperti, ovviamente, ma sui grandi numeri era un costo sostenibile. E poi c’è il genio italiano: “Ha visto cosa ci siamo inventati? La riscoperta del drive in in chiave alimentare. Non ha idea di quante ne escogitino i ristoratori. E non solo le grandi catene che avevano già gli spazi e le infrastrutture per farlo.Penso a chi con due parcheggi ha realizzato il «drive park».

Ovvero: ordini, magari via App, vai in macchina e non entri neanche nel locale: parcheggi e vieni servito. “I ristoratori – aggiunge Scordamaglia – hanno creato un nuovo modo di consumare cibo pur di continuare a svolgere il loro straordinario lavoro. “Il drive park ha prodotto volumi Incredibili. Tra colo che hanno messo in piedi il drive in e quelli che si sono inventati il drive park si Arrica anche il 15 per cento delle vendite in più”. E non è uno scherzo.

“Ma anche per sfruttare questo nuovo canale, però, ti serve tecnologia, e quindi soldi: i tempi perfetti, la possibilità di sviluppare una app per ottimizzarli. Il cliente non deve aspettare un minuto”.

Ma per chi ci è riuscito il ritorno è stato doppio: “Abbatti dei costi perché tagli coperti e servizi al tavolo. Salti il problema del distanziamento”. E allora si torna al punto: Perché “la classe media” della ristorazione soffre così tanto? Scordamaglia non ha dubbi: “Sono stati colpiti i due pilastri su cui si reggeva: lo smart working ha distrutto le pause pranzo. E il distanziamento sociale ha dimezzato le entrate, ma quasi mai i costi fissi di impresa”. Chiedo  se i ristoratori dovrebbero davvero cambiare lavoro, come ha detto Laura Castelli. Scordamaglia glissa: “È stata una battuta infelice. Spero, anzi credo, che la viceministra si sia ravveduta”.

I ristoratori, peró, saranno fuori pericolo solo se verranno aiutati come si deve e subito. “Solo in questo caso nessuno avrá bisogno di cambiare mestiere. Il consumatore continuerà ad aver voglia dell’esperienza sociale e umana della trattoria, del ristorante tipico famoso per un piatto e anche delle catene che servono qualità”. Altro esempio: “Se lei va in certe osterie sperdute trova le file con le guide in mano. Per impedire il collasso del settore, dunque, non serve assistenza ma “ossigeno” che secondo Scordamaglia “consiste nella liquidità e nella sospensione di tasse e contributi. Bisogna difendere i medio -piccoli che hanno ancora mesi di inferno davanti a loro”.

Però se gli citi i critici della politica dei sussidi il consigliere di filiera alimentare quasi si arrabbia: “È ridicolo: abbiamo dato per trent’anni gli incentivi alla Fiat senza che nessuno fiatasse. Lascio valutare gli effetti. Il settore «automotive» ha succhiato risorse vitali al Paese e adesso produce in Italia un quarto del numero delle vetture di alcuni anni fa e delocalizza le proprie sedi. Vogliamo distribuire nuovi incentivi per far vendere auto a tedeschi coreani e giapponesi, e abbandonare la nostra principale industria nazionale?”.

Inutile dire che secondo Scordamaglia questa industria non è metalmeccanica, ma alimentare: “Basta leggere i numeri e abbandonare le percezioni mitiche. Dobbiamo spostare investimenti dall’automotive all’«agromotive». Pensaci: l’alimentazione è l’unica industria nazionale che non può delocalizzare”.

A questo punto mi incuriosisco alla biografia del mio intervistato, uno dei tanti figli del Sud che ha fatto fortuna al Nord. Scordamaglia nasce a Chiaravalle, in Calabria. Il padre è dirigente veterinario di una Asl. La madre insegna alle elementari. Lui da piccolo vuole seguire le orme paterne, Sogna di curare gli animali e inizia da lì: si iscrive al liceo scientifico. Si laure all’università di Perugia, e lí fa il dottorato in veterinaria. Poi si specializza con un master in economia a Modena. Nel magico mondo del food ci entra per caso. E per via di un incontro folgorante.

Lavorava già in facoltà a veterinaria: ma un giorno, grazie a una visita in azienda, nel 1994, incrocia l’uomo che definisce “il più grande  visionario sei mio settore”. Si tratta di Luigi Cremonini, il re degli allevamenti. Difficile ricordare tutto quello di cui parlano quel giorno. Nella memoria gli sembra di aver toccato ogni tema della scibile (nel suo settore), e il giovane Luigi rimane impressionato. Sembrava una normale chiacchierata: Cremonini era partito dai bovini, poi era passato all’alimentazione nel terzo millennio – ovvero quello di cui stiamo discutendo oggi – e gli aveva detto: «La terra e il cibo saranno il petrolio di domani e diventeranno sempre più centrali e strategici».

Oggi Scordamaglia sospira: “Aveva ragione”.

Ma la cosa più sorprendente era il modo in cui si era  chiusa questa  discussione, tra un boss e una matricola. In modo inatteso Cremonini guarda il ragazzo e gli dice: «Senta, molli tutto e venga a lavorare da noi». Lui, ovviamente, lo fa: “In un giorno passai da voler curare gli animali a voler sfamare il mondo”. Aveva 29 anni: dopo due mesi era vicedirettore di Assocarni. Nel 2006, a 41 anni era diventato amministratore delegato di Inalca-Cremonini.Nel 2014, presidente di Federalimentare. Ovvio che riassunto così  sembra il plot di un film americano.

Ma Scordamaglia è convinto di dover tutto a Cremonini e al suo gruppo: “Ho imparato tutto da lui. Sono potuto crescere grazie a questo entusiasmo e a questa fiducia”. Nel 2018, però c’è un altro salto nel vuoto.  Scordamaglia lascia Confindustria e passa dall’altra parte della barricata, per realizzare il suo pallino e costituire, con Coldiretti, il progetto di “Filiera Italia”.Tutti restano stupiti perché a prima vista è come mettere insieme in diavolo e l’acquasanta.

Lui oggi ci ride su: “Vero. Ma il fatto è che quella barricata non doveva esistere. Il futuro di cui parlo deve superare la conflittualità tra industria e produzione. Il mondo di oggi sta diventando quello che Luigi Cremonini aveva previsto”. E da questo punto di vista Expo è stata una folgorazione: “Abbiamo scoperto lì quanto è grande la forza del food italiano e la sua regola più importante: gli interessi di produttori e industria sono gli stessi. Ogni metro che conquistava uno, era un metro che conquistava l’altro. E viceversa. È così anche oggi, anche in questa crisi”.

Ed ecco cosa tiene insieme  ancora oggi la filiera: “La ricerca della qualità e della originalità, la difesa dalle imitazioni, l’idea comune che il modo in cui si produrrà il cibo cambierà il pianeta, gli stili di vita, i costumi”. Obietto che è tutto molto suggestivo, sulla scia del verbo di Carlin Petrini, il profeta di un intento mondo: ma che va anche dimostrato. Scordamaglia si concede un sorriso e mi dice: “Conosce la più bella battuta di Einstein?”. Subito di più la cita: “Non so con quali armi si combatterà la terza Guerra Mondiale. Ma so che la quarta si combatterà con la clava». Era frase che spiegava perfettamente la guerra fredda, il rischio dell’anno zero. E lui su questo punto si accende: “Ecco, io le posso dire che la prossima guerra – quella di un pianeta che ha sempre più bocche da sfamare – sarà combattuta con la capacità di coltivare una cosa preziosissima come la terra”.

Chiedo a Scordamaglia se ha già idea di chi la vincerà, questa guerra. Lui sospira: “Non conosco ancora il suo nome. Non so se sarà uno stato o una società. Ma so che sarà chi riuscirà a produrre di più, con minori risorse e minore impatto ambientale”. Gli chiedo se ha idea di quando inizierà questa guerra. Lui allarga le braccia: “Guardatevi intorno. È già deflagrata. Si sta combattendo in ogni angolo del pianeta. È noto che in Africa i cinesi hanno inventato un nuovo colonialismo agricolo. Non conquistano gli Stati ma i campi”. Fa un pausa: “E li devastano. Li usano in modo intensivo, distruggono il suolo e se ne vanno via, a cercare un nuovo terreno di conquista. È l’ultima forma del colonialismo, quello del suolo”.

Ma se i cinesi sono i cattivi, noi italiani in questa guerra, da che parte stiamo? Scordamaglia Ride, per l’ultima volta: “Noi siamo i buoni”. È una bella iperbole, ma gli chiedo di convincermi: “Semplice: noi per l’esiguità dei nostri appezzamenti abbiamo il miglior «know how» al mondo per evitare il consumo del suolo. Perché se l’agricoltura è il nuovo petrolio del mondo – e io ne sono convinto! – la pianura padana è una cosa che sta a metà fra il Texas come produzione, e la Silicon Valley come innovazione. Il nostro Sud è un enorme serbatoio di biodiversità”.

Gli chiedo come, e mi risponde con un termine che non conoscevo: “Conosce la «georeferenziazione»?È la scienza che regola l’uso intelligente e combinato  di acqua, sementi, fertilizzanti”. Gli chiedo come funzioni e lui spiega: “Invece di dare una cura da cavallo usandoli in maniera indifferenziata su tutto un campo, si fa una diagnosi grazie anche ai satelliti, metro per metro, e si utilizza soltanto quel che serve. E si evita il consumo superfluo. Dopo questo ciclo produttivo il campo invece che meno fertile, lo diventa di più”.

Ovviamente sembra Fantascienza, sopratutto in un mondo che combatte per l’acqua ed è sul filo della carestia. Lui scuote la testa: “Macché. È quello che sta facendo un’azienda come Bonifiche Ferraresi in Italia. Ma anche in Ghana e Tunisia”. L’idea che ci sia almeno una collaborazione italiana tra pubblico e privato  che funziona mi riempie di entusiasmo: “Parliamo di qualunque cosa, ma mai delle vere eccellenze di questo Paese”. 

Chiedo a Scordamaglia se ci siano altri «cattivi» in questa guerra dell’alimentazione.

Lui ride: “Io non ho dubbi. Oggi il vero nemico è chi vuole sostituire la chimica all’alimentazione”.

Gli chiedo un nome. Lui mi spiazza: “Ne vuole uno importante? Il commissario europeo Frans Timmermans quando dice: «Arriverà un giorno in cui per produrre latte e carne non avremo bisogno delle stalle».

Intende dire: un giorno in cui tutto il cibo si potrà ottenere in laboratorio. Inutile dirvi cosa ne pensa Scordamaglia: “Orrore: spero che quel giorno non arrivi mai anche perché vorrebbe dire togliere a miliardi di agricoltori il compito di sfamare il mondo, concentrandolo nelle mani di poche multinazionali”. Prima di chiudere il nostro colloqui consigliere di Filiera alimentare mi regala  un altro straordinario esempio: “Abbiamo iniziato con l’Amarone e chiudiamo con la storia del culatello”.

La pausa è teatrale, poi inizia il racconto: “Il culatello è stagionato praticamente senza sale, e questo ha interessato l’industria di diversi altri Paesi, affascinati da un prodotto dietetico e di straordinaria qualità senza concorrenti”. È così gli americani si buttarono sul prodotto per provare a riprodurlo: “Sono venuti in Emilia Romagna per copiarlo. Prima loro, poi il resto del mondo. Con squadre, esperti, attrezzature”. Risultato? “Non hanno cavato un ragno dal buco!”. Cosa mancava per ottenere un «culatello sounding»?

Lui ride: “Un unico ingrediente, ma non riproducibile: quei 15 chilometri di terra e di aria del Po dove si realizzano condizioni di umidità e ventilazione unica al mondo. Se non vuoi usare il sale, devi stagionarlo lì. Non si può riprodurre in laboratorio. Non ci sono riusciti. Ed è così per il vino, per l’olio, per i formaggi italiani. Noi siamo il regno della biodiversità e della cultura gastronomica”.

Chiudo domandando a Scordamaglia se sarà il Covid a minare tutto questo? Mi guarda negli occhi: “No, anzi: sono convinto che accadrà il contrario: se si farà quello che abbiamo detto entrerà in crisi il modello globalizzato, gli standard, i falsi, le grande industrie della contraffazione: se riusciamo a reggere la botta, ci sarà una nuova ripartenza nel segno della qualità. Ma è un passaggio prendere o lasciare: bisognerà impegnarsi perché questo accada”.

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