“La sindrome del ‘kebabbaro’– commenta Mario Sechi su Libero– è un disagio che si manifesta nella sinistra quando subisce la sconfitta, non elabora il lutto, non capisce l’avversario e ogni volta che lo vede, lo sente parlare, lo immagina, perde l’orientamento, barcolla, sbatte i piedi, e cade in uno stato che oscilla tra la prostrazione e la rabbia.
Dopo più di tre anni di governo Meloni l’opposizione ancora non sa chi è Giorgia.
Meloni è una professionista della politica, ha fondato 13 anni fa un nuovo partito che oggi è il primo in Italia, fa comizi e vita di sezione da quand’era ragazzina, ha frequentato l’università dell’opposizione e si è rivelata primadonna a Palazzo Chigi con la stoffa della grande leader europea del governo più stabile del Vecchio Continente.
Meloni sa parlare al suo popolo, conosce i trucchi del mestiere, il suo intervento ad Atreju è un manuale di politica e costume.
C’è il programma, la Nazione, le parole che servono per segnare la differenza tra ‘noi e loro’, quel che si dice ‘l’impianto ideologico’ di un partito conservatore europeo.
Ma lo scacco matto è l’utilizzo del pop, della cultura popolare di cui la sinistra si è dimenticata.
La macchina narrativa di Meloni manda in corto-circuito la sinistra utilizzando le sue icone, i suoi simboli, di cui ha smarrito le tracce, si sono inalberati perché a Atreju si è discusso di Pier Paolo Pasolini, mesi prima era venuto il momento del Gramsci non si tocca.
E la realtà è che a sinistra non li leggono, sono fermi alle citazioni.
L’egemonia di cui si vantano i post-comunisti è un catorcio, fu Giovanni Raboni sul Corriere della Sera a scolpire la verità: i grandi scrittori sono di destra.
Meloni solleva il coperchio del pentolone progressista che ha perso il contatto con il popolo che disprezza.
Il suo discorso a Atreju è disseminato di cultura pop, quella che nel Pd non c’è più dai tempi delle ‘americanate’ di Walter Veltroni”.








