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La gestione della pandemia e la sicurezza delle cure. Tutti gli errori da non ripetere

Alla luce di tutto quello che è avvenuto per questa pandemia dovuta a SARS-CoV-2, vorrei porre alcune domande e tentare di dare delle risposte, ma non come medico igienista e di sanità pubblica, bensì come esperto in fattore umano e sicurezza delle cure.

In questa pandemia tutti hanno detto la loro, virologi, epidemiologi, intensivisti, pneumologi, esperti in sanità pubblica e in grandi emergenze, ma non ho mai sentito affrontare il problema COVID-19, se non in rarissime occasioni, da parte di coloro che si occupano di sicurezza delle cure, di organizzazioni ad affidabilità dei sistemi e aggiungerei di sicurezza del lavoro. Credo che lo scarso spazio dato a queste tematiche dai media sia coerente con un livello di cultura della sicurezza, non molto alto, presente nel nostro Paese, ma direi, se vediamo i dati di COVID-19 dell’OMS, anche in altri. Come se, nella maggior parte delle persone, prevalesse il fatalismo rispetto alla consapevolezza di saper e potere intervenire quando le situazioni di vita diventano pericolose.

Proverò a rispondere ad alcune domande che in molti addetti ai lavori, ma anche comuni cittadini, si sono poste. Lo farò mettendomi nella veste dell’osservatore critico. Non me ne vogliano tutti coloro che si sono impegnati nel combattere questa pandemia, ma credo sia anche giunto il momento di analizzare i fatti con maggiore distacco.

Come mai i sistemi sanitari di tutto il mondo si sono fatti cogliere così di sorpresa da un evento previsto e prevedibile?

Le risposte sono tante e ognuno le ha date in base alla propria area di competenza, io credo che sia venuta meno quella che in risk management è definita la “situational awareness”, la corretta percezione di elementi ed eventi ambientali rispetto al tempo o allo spazio, la comprensione del loro significato e la proiezione del loro status futuro.

Solo in pochi si sono resi conto della gravità di questa malattia infettiva con un tasso di letalità dieci volte superiore alla comune influenza e una notevole capacità di propagazione, potendo svilupparsi in molte persone in modo asintomatico, favorendo quindi il contagio.

Molti sono i metodi per migliorare la percezione del rischio e si basano tutti sulla formazione e comunicazione. Esiste sulle pandemie una filmografia che negli anni passati ha descritto in modo realistico quanto sarebbe accaduto (Outbreak di Wolfgang Petersen del 1995; Contagion di Steve Sodeberg del 2011).

É anche incredibile che i piani pandemici messi a punto in passato, a seguito della MERS e della SARS, dal Ministero della Salute non abbiano trovato rapida applicazione e, tutto quello che prevedevano, ad esempio stimare il fabbisogno di mascherine e avere una riserva, non sia stato attuato.   

L’OMS ha dimostrato in questa epidemia una certa lentezza nella sua azione e, soprattutto, una ridotta autorità e autorevolezza, molti Paesi hanno preferito adottare proprie linee di condotta.

Le ragioni per cui le istituzioni politiche hanno stentato a credere quanto gli esperti affermavano va ancora analizzato e compreso. Anche in Italia ci sono stati dei ritardi e l’incertezza, almeno iniziale del Governo, nell’adottare i provvedimenti di lockdown consigliati dai tecnici ha ritardato il contenimento dell’epidemia. Come mai?

Si è trattato in molti casi di una questione di “leadership”. Non per mancanza di leader, ma per un eccesso. La regionalizzazione della sanità in Italia non ha consentito una gestione forte e centrale della pandemia, questo è avvenuto anche in altri Paesi.

Credo che, mai come in questo caso, è stata così difficile la comunicazione tra tecnici e politici. Si tratta di persone che hanno obbiettivi diversi, i primi devono dimostrare – sulla base di procedure collaudate/scientifiche – di risolvere il problema, i secondi hanno la necessità che queste misure abbiano il consenso anche dei cittadini. La funzione del politico è quindi fondamentale per dare forza e credibilità alle scelte tecniche. Purtroppo nel nostro Paese ormai la competizione politica è arrivata a un punto che non si ferma nemmeno nei casi in cui l’unità del paese e la solidarietà dei cittadini dovrebbero essere principi fondamentali da osservare. Tutto questo complica inevitabilmente l’azione della prevenzione.

Questa difficoltà di rapporto tra tecnici e politici a livello internazionale ha visto la sua massima espressione nel rapporto tra Donald Trump e Anthony Fauci. Si è preferito contrapporre alla difficile personalità del Presidente degli Stati Uniti, un medico di ottant’anni, che non aveva nulla da perdere, piuttosto che il direttore del CDS di Atlanta, il centro più famoso nel mondo per la lotta alle epidemie.

Credo che sia necessario rivedere il rapporto fra tecnici/ricercatori e politici. É assolutamente necessario che il linguaggio tecnico, in situazioni difficili, si adatti e trovi una via di comunicazione nell’interlocuzione con la politica che inevitabilmente tende a semplificare le situazioni complesse. Del resto la politica parla a tutte le classi sociali e quindi i concetti da esprimere – nel caso di COVID-19 le misure da adottare – devono essere comprese molto bene. La comunicazione non è stata delle più efficaci e ci sono volute le immagini dei famosi camion militari di Bergamo che trasportavano le bare o le immagini delle rianimazioni con i pazienti intubati per far capire la situazione.

In sintesi si può dire che la resilienza istituzionale nel caso di COVID-19 non è stata altissima e questo concetto va assolutamente potenziato in organizzazioni che dovrebbero essere ad alta affidabilità, come in genere sono i servizi sanitari.

Un’altra questione che è apparso evidente non aver funzionato adeguatamente, è stata la costituzione delle task force, regionali e nazionali, come mai?

Il “team working” non s’improvvisa, ma è necessario già da tempo conoscersi e lavorare insieme. Per affrontare le emergenze le task force non devono essere costituite sul momento, ma devono già esistere. Costituirle al bisogno significa solo far prevalere l’autorità di stato rispetto a quella di fatto, nessuno si assume responsabilità se non è stato già preparato rispetto alla funzione da svolgere. Inoltre, nessuna squadra se non è allenata a giocare insieme può ottenere dei buoni risultati. Nella loro composizione, peraltro, solo in rari casi sono state inserite delle competenze in gestione del rischio clinico e in medicina del lavoro e ciò ha avuto presumibilmente delle conseguenze.

Si è puntato tutto sulle competenze specialistiche necessarie per COVID-19 e questo ha favorito interventi di riorganizzazione ospedaliera tesi a creare nuovi reparti, aumentare i posti in terapia intensiva. La routine delle altre specialità non ha più avuto considerazione e questo ha determinato un arretrato di visite specialistiche con tutte le inevitabili conseguenze, diagnosi e terapie ritardate. Di tutto questo non è ancora stata fatta una stima, ma COVID-19 ha causato danni a breve e a lungo termine.

Ma quale è stato sino ad oggi il contributo della gestione del rischio clinico a questa pandemia?

Un timido documento d’indirizzo è venuto dalla Sub Area Rischio Clinico della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni in data 9/3/2020 (15). Tale documento, rivolto ai referenti regionali e aziendali per la sicurezza delle cure e la gestione del rischio sanitario durante l’emergenza coronavirus, non ha proposto azioni innovative, ma l’applicazione degli strumenti tradizionali della gestione del rischio, nel tentativo di svolgere una funzione di prevenzione e contrasto alla diffusione dell’epidemia. Molti medici e infermieri, come sappiamo, hanno posto il problema della loro carente protezione e questo ha rappresentato certamente una grave criticità, non solo per la sicurezza del lavoro, ma anche per quella dei pazienti.  

Qualcuno ha anche fatto notare che le infezioni correlate all’assistenza durante quest’epidemia hanno continuato a dare il loro contributo di morti. In base ai dati dell’ISS, oltre all’insufficienza respiratoria e renale, complicanze frequenti sono state, in oltre il 10% dei casi, le sovrainfezioni.

Come misura di management sanitario è stata auspicata la collaborazione tra le reti aziendali del rischio clinico e del rischio infettivo, con programmi di controllo infettivo basati sulla diffusione delle buone pratiche correlate alla prevenzione e controllo delle infezioni (adozione delle precauzioni standard e delle precauzioni di isolamento specifiche aggiuntive, azioni di sostegno per la compliance all’igiene delle mani, sanificazione, disinfestazione e sterilizzazione ecc.), è avvenuto tutto questo?

L’assenza di competenze in risk management nelle task force regionali ha favorito inoltre quello che è uno degli errori più tipici nelle organizzazioni complesse, la mancanza di un approccio sistemico.

Doveva essere fatta presente la pericolosità di adottare soluzioni parziali, secondo una logica sequenziale/gerarchica e doveva essere evidenziata la necessità di affrontare l’emergenza in modo diverso, secondo le regole del risk management ben descritte anche dalla WHO. Purtroppo, a un certo punto, in molti casi le task force sono andate in overload d’informazioni e si sono chiuse in se stesse, non più in grado di ricevere gli input esterni. Si è posto, infine, un problema di gestione dello stress degli operatori, la letteratura offre numerosi suggerimenti su come affrontare questi eventi, non è possibile al momento sapere quanto siano stati applicati. Fatto sta che molti operatori sanitari sono usciti estremamente provati da questa esperienza.

Il Governo italiano, come del resto le Regioni, hanno risposto all’epidemia emanando una serie di atti (DPCM e Ordinanze). In circostanze normali una modalità simile poteva essere considerata valida, se non addirittura saggia. In questa epidemia è emerso, invece, che la lunga catena di comando, la burocrazia, l’illeggibilità di questi atti, non particolarmente intelligibili dal punto di vista comunicativo, non hanno sicuramente facilitato la loro applicazione. Gli eventi sono stati, piuttosto che anticipati, faticosamente inseguiti: le mascherine, le terapie intensive, le RSA, i tamponi, i test sierologici, la gestione degli acquisiti, l’attuazione della seconda fase.

La risposta adeguata all’epidemia avrebbe dovuto essere concepita come un sistema coerente di azioni simultanee; il successo ottenuto in altri Paesi nella gestione dell’epidemia, ma anche in alcune regioni del nostro Paese, è dipeso proprio da una varietà di misure introdotte contemporaneamente. In alcuni contesti il passaggio da una patient centred care a una community centred care è stato più rapido, consapevoli che l’epidemia si sarebbe dovuta gestire sul territorio.

COVID-19 per i sistemi sanitari di tutto il mondo è stata una cattiva dimostrazione di affidabilità, “andrà tutto bene” credo si sia trasformato, nel tempo, in un “poteva andare peggio”, dobbiamo assolutamente imparare dalle lezioni apprese e soprattutto non dimenticare. É la prima regola del risk management dare una memoria alle organizzazioni.

Una proposta è che si crei una task force nazionale sulle pandemie che produca annualmente un piano pandemico, sia costituita dai migliori esperti che abbiamo a livello nazionale, scelti in base alle competenze. Questa task force dovrebbe aggiornare annualmente e collaudare con verifiche e simulazioni il proprio lavoro. In caso di pandemia sarà tale organismo (che dovrà avere in ogni Regione italiana, il suo referente), a gestire l’applicazione del piano pandemico, non altri.

Bibliografia di riferimento

Bagnara S, Parlangeli O, Tartaglia R. Are hospitals becoming high reliability organizations? Appl Ergon. 2010, Sep;41(5): 713-8.

Micaela La Regina, Michela Tanzini, Vittorio Fineschi, Francesco Venneri, Giulio Toccafondi, 

Peter Lachman**, Riccardo Tartaglia* and COVID-19 INSH Working Group. Responding to COVID-19 an the experience from Italy and recommendations for management and prevention. Int J Quality in Health Care, 2020, 1, 4.

M. La Regina, M. Tanzini, R. Tartaglia. La Gestione sanitaria della pandemia COVID-19: un problema di resilienza istituzionale. IJPDTM, 2020, vol 3 N° 2.

G. Falsini, F. Venneri, R. Tartaglia. Il rischio clinico e COVID-19, analisi e proposte per ripartire. Toscana Medica 5/2020

Clinical Human Factors Group. Key human factors messages – when working under pressure. https://chfg.org/

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