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Il Mondiale, il Pride Match e la partita imbarazzante tra Iran ed Egitto | L’analisi di Raffaella Romagnolo

Il calendario dei Mondiali – ci ricorda Raffaella Romagnolo su La Stampa – prevede che venerdì 26 giugno 2026 si giochi una partita del girone G a Seattle, città di Hendrix, Microsoft, Amazon e dell’immaginario Seattle Grace di Grey’s Anatomy, ma anche sede di uno dei Pride più noti d’America. A fine giugno lì si scende in strada, e gli organizzatori della partita devono aver pensato: perché non unire le due cose?

Sport e diritti umani spesso vanno a braccetto: il pugno guantato di Smith e Carlos nel ’68, i giocatori NBA in ginocchio contro il razzismo. Così il match del 26 giugno è stato battezzato “Pride Match”, con artisti invitati e spalti arcobaleno in preparazione.

Tutto bene fino al sorteggio di venerdì scorso: in campo ci saranno Egitto e Iran. In Egitto esistono reati contro la morale attribuibili agli omosessuali; in Iran, in alcuni casi, è stata applicata la pena di morte. Difficile immaginare quelle nazionali giocare serenamente in uno stadio arcobaleno. E infatti sono arrivate puntuali le proteste di Teheran e del Cairo.

Come se ne esce? La storia è insieme comica e tragica, uno stallo messicano: gli organizzatori possono davvero ritirare lo slogan “Pride Match” come se nulla fosse? E i due Paesi possono accettare che sugli spalti sventolino bandiere multicolori? Qualunque scelta fa perdere la faccia a qualcuno, ma il calcio mondiale, grande macchina da soldi, andrà avanti comunque. I diritti umani però sono cosa seria: vite, carne, sangue.

Machiavelli diceva che il Caso (“Fortuna”) agisce, ma l’umano può provarci con la “Virtù”. Speriamo che qualcuno trovi una soluzione degna, in spirito democratico. Si legge che il presidente americano, amico del presidente Fifa, in passato si sarebbe detto pronto a togliere partite a città lontane dalla sua politica. Spostare l’incontro altrove però non sarebbe risolvere il problema, ma aggirarlo. Un trucchetto. Non so se a Machiavelli piacerebbe.

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