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Il Covid ha severamente punito la debolezza del nostro sistema sanitario. Ecco tutti gli errori (da non ripetere) delle Regioni e della Politica

Il Rapporto Osservasalute è stato finito di scrivere nel pieno della pandemia che ha colpito il nostro Paese e il Mondo intero, l’esperienza che stiamo vivendo è la prima crisi sanitaria che colpisce su larga scala il pianeta dopo quella causata dalla spagnola nel primo dopoguerra, ma questa volta potrebbe causare danni ingenti non solo in termine di vite umane, ma sull’intero assetto economico mondiale, complice l’elevata capacità di mobilità dei cittadini, legata anche alla globalizzazione dei mercati.

L’emergenza sanitaria vissuta dal nostro Paese interviene dopo un lungo periodo in cui il nostro Servizio Sanitario Nazionale ha sperimentato un processo di riduzione delle risorse, finalizzato al rispetto dei vincoli di finanza pubblica e all’efficientamento dell’intero sistema sanitario pubblico.

Nel 2018, la spesa sanitaria complessiva, pubblica e privata sostenuta dalle famiglie, ammonta a circa 153 miliardi di euro, dei quali 115 miliardi di competenza pubblica e circa 38 miliardi a carico delle famiglie. Dal 2010 al 2018 la spesa sanitaria pubblica è aumentata di un modesto 0,2% medio annuo, molto meno dell’incremento del Pil che è stato dell’1,2%. Al rallentamento della componente pubblica ha fatto seguito una crescita più sostenuta della spesa privata delle famiglie, pari al 2,5%.

Il settore più interessato dai tagli è stato quello ospedaliero, dal 2010 al 2018 il numero di posti letto è diminuito di circa 33 mila unità, con un decremento medio dell’1,8%, continuando il trend in diminuzione osservato già a partire dalla metà degli anni ’90.

Dal punto di vista dell’attività di assistenza erogata dagli ospedali il Rapporto evidenzia che il tasso standardizzato di dimissioni ospedaliere a livello italiano mostra un andamento in progressiva riduzione nel periodo 2013-2018, passando di 155,5 ricoveri su 1.000 residenti del 2013 a 132,4 per 1.000 del 2018.

Nel 2018, nessuna regione italiana presenta valori oltre la soglia di 160 per 1.000 abitanti prevista dalla normativa (DM Salute n. 70/2015).

Una buona parte dei risparmi di spesa ottenuti in questi anni è dovuto alla riduzione del personale sanitario.

L’incidenza della spesa per personale dipendente del SSN sulla spesa sanitaria totale si è ridotta di 1,3 punti percentuali tra il 2014 e il 2017, passando dal 31,4% al 30,1%, confermando il trend già osservato a partire dal 2010. L’analisi dei dati relativi alla spesa per il personale rapportata alla popolazione residente nel periodo 2014-2017 mostra una diminuzione dell’1,1%, passando da un valore di 572,6€ a un valore di 566,3€; si conferma il trend già osservato a partire dal 2010.

I dati di spesa, inoltre, testimoniano come esista (e persista) una profonda differenza a livello regionale nei valori di spesa pro capite grezza: la spesa più alta, pari a 1.143,9€ (oltre 577€ in più rispetto al dato nazionale), si registra nella PA di Bolzano, seguita dagli 885,1€ (oltre 318€ in più rispetto al dato nazionale) della Valle d’Aosta, mentre le regioni con una spesa pro capite minore sono la Campania, il Lazio, la Puglia e la Lombardia che registrano valori inferiori a 500€ pro capite.

I risparmi di spesa ottenuti derivano in buona parte dalla riduzione del personale sanitario. Nel 2017 il numero di medici e odontoiatri del SSN è di 105.557 unità, registrando un calo dell’1,5% rispetto al 2014, quando i medici erano 107.276; per quanto riguarda il personale infermieristico si registra una riduzione del 1,7% del numero di unità che passano da 269.151 nel 2014 a 264.703 nel 2017.

Il tasso di medici e odontoiatri del SSN per 1.000 abitanti è in diminuzione, ad eccezione di Trentino-Alto Adige, Puglia, Umbria e Sardegna. In particolare, in tutte le regioni del Centro e del Sud ed Isole la riduzione del tasso di medici e odontoiatri per 1.000 abitanti risulta più marcata e in via generale con valori superiori al dato nazionale. Per quanto riguarda gli infermieri, in molte regioni si riscontra un trend negativo, in particolare, le riduzioni più marcate si registrano in Abruzzo, Liguria, Friuli-Venezia-Giulia e Molise.

La pandemia ha dimostrato che le regioni non hanno avuto lo stesso approccio per fronteggiare l’emergenza sanitaria.

Il livello territoriale dell’assistenza si è rivelato in molti casi inefficace, le strategie per il monitoraggio della crisi e dei contagi particolarmente disomogenee, spesso imprecise e tardive nel comunicare le informazioni.

Dall’analisi di alcuni degli indicatori utilizzati per il monitoraggio emerge che questa pandemia è stata affrontata in maniera disomogenea dalle Regioni con il numero più alto di contagiati (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Liguria, Lazio, Marche, Campania e Puglia) e ha avuto “gravità” diverse.

La gestione dei contagiati è stata disomogenea sul territorio, il Veneto ha la quota più bassa di ospedalizzati e quella più alta di coloro che sono stati posti in isolamento domiciliare.

La dinamica osservata mette in luce che all’inizio della pandemia questa Regione aveva in isolamento domiciliare circa il 70% dei contagiati all’inizio del periodo, nell’ultimo periodo oltre il 90%.

Lombardia e Piemonte, all’inizio della pandemia, hanno ospedalizzato tra il 50% e il 60% dei contagiati, tale quota è aumentata, oscillando tra il 70 e l’80%, nella prima metà di marzo, quando nelle altre regioni diminuiva; infine, a partire dalla fine di aprile, queste due regioni scendono sotto il 20%.

La Toscana e le Marche hanno avuto approcci simili, entrambe hanno ospedalizzato oltre il 60% dei contagiati fino ai primi di marzo, per poi scendere sensibilmente sotto il 30% alla fine di marzo e sotto il 20% dalla seconda metà di aprile.

Altro elemento distintivo della gestione della pandemia è rappresentato dai tamponi effettuati.

Il Veneto ne ha effettuati il numero più alto in rapporto alla popolazione, circa 50 ogni 100 mila abitanti all’inizio del periodo, fino a punte superiori a 400 agli inizi di giugno.

La Puglia è la regione con il numero minore di tamponi effettuati, meno di 100 ogni 100 mila abitanti.

Colpisce la variabilità nel tempo fatta registrare da tutte le Regioni, in particolare il Veneto e le Marche.

La letalità del Covid-19 (n. decessi/n. contagiati), mette in luce che in Lombardia ha raggiunto il 18% a fine marzo e inizi di aprile, ed è restato costante su questo livello sino al 15 giugno, mentre in Veneto cresce costantemente e raggiunge il 10% nell’ultimo periodo.

Nelle altre Regioni si osservano andamenti molto differenziati, dipendenti anche dallo sfasamento temporale dell’insorgenza, ma la letalità non raggiunge mai i valori della Lombardia.

Emilia Romagna, Marche e Liguria sono le altre regioni con la letalità più elevata, tra il 14 e il 16%. Non è chiara la spiegazione a questo dato, le interpretazioni più verosimili la attribuiscono alla sotto stima del numero di contagiati (il denominatore del rapporto con il quale si misura la letalità), cioè mancherebbero alla conta i contagiati asintomatici.

Questa emergenza sanitaria ha messo in luce la necessità di riorganizzare e sostenere con maggiori risorse il ruolo del territorio che avrebbe potuto arginare, soprattutto nella fase iniziale della pandemia, una parte dell’emergenza evitando che questa si riversasse sulle strutture ospedaliere, impreparate ad affrontare una mole elevata di ricoveri di persone in una fase acuta dell’infezione.

La crisi drammatica ha improvvisamente messo a nudo fino in fondo la debolezza del nostro sistema sanitario e la poca lungimiranza della politica nel voler trattare il Servizio Sanitario Nazionale come un’entità essenzialmente economica alla ricerca dell’efficienza e dei risparmi, trascurando il fatto che la salute della popolazione non è un mero fringe benefit, ma un investimento con alti rendimenti, sia sociali che economici.

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