Rischiamo di trovare una brutta sorpresa fuori dal tunnel della pandemia.
In questi due anni di sofferenza e lotta al Covid ci siamo abituati a immaginare un dopo carico di rinascita, denso di un automatico slancio economico. Lo abbiamo chiamato “rimbalzo” e del resto ne abbiamo avuto prova tutte le volte che una falsa ripartenza post covid si è affacciata nelle nostre vite.
Accadde nell’estate del 2020, quando dopo la prima durissima ondata e il primo grande lockdown l’Italia sembrò ripartire. Ma durò poco, molto poco.
Poi nel 2021, con la primavera dei vaccini: l’anno della speranza. La speranza di aver trovato un antidoto efficace contro il virus e di conseguenza (quasi fosse un principio naturale) la ripresa economica.
Ma non è andata così, o almeno non ancora.
La pandemia economica
Il 2022 si presenta all’Italia e all’Europa carico di incognite e paradossalmente il Covid – salvo rovesci della storia imprevedibili come varianti più aggressive di Omicron – non sarà il nostro più importante problema.
Quello che si apparecchia per il nuovo anno è un principio di crisi economica che può determinare un colpo fatale al sistema produttivo italiano ed europeo già sfiancato dalla pandemia.
E’ sotto gli occhi di tutti, attoniti, quali sono le conseguenze in essere del caro energia ed è molto chiaro cosa possa ancora determinare a danno del potere d’acquisto delle famiglie.
Il raddoppio delle bollette
Qualche esempio. Nel primo trimestre 2022 si è registrato nonostante gli interventi straordinari del Governo, un aumento del costo per l’energia elettrica per famiglia pari a +55% per la bolletta dell’elettricità e a +41,8% per quella del gas rispetto al trimestre precedente. Questi incrementi risultano ancora più significativi se valutati rispetto ai livelli del trimestre dell’anno scorso: per l’energia elettrica, il prezzo di riferimento per il cliente tipo è passato da 20,06 centesimi di euro per kWh nel primo trimestre 2021 a 46,03 centesimi di euro per kWh nel primo trimestre 2022 e, per il gas da 70,66 centesimi di euro per metro cubo a 137,32 centesimi di euro.
Le imprese travolte
Le imprese sono poi le vere vittime. Quest’anno l’industria pagherà una bolletta di 37 miliardi rispetto agli 8 del passato. E tante aziende trovano più conveniente tenere spenti gli impianti piuttosto che produrre.
Il boom di pane e pasta
Il caro prezzi legato all’aumento di gas, luce e carburante, ha già colpito duramente la spesa degli italiani con aumenti medi superiori al 20%. Da marzo a ottobre 2021 il costo del pane è salito dell’11%, toccando quota 3,86 euro al chilo. L’aumento del costo del grano rappresenta il 60% del costo di produzione della pasta, a cui va aggiunto il 300% del gas e il 25% del packaging. Dopo un aumento medio del 10,8% registrato nel 2021, alla Grande Distribuzione è stato richiesto ad inizio anno di effettuare degli adeguamenti sui listini prezzi. Si parla di aumenti pari al 36%, poi sceso al 25% in fase di contrattazione. Non è detto, tuttavia, che i clienti vedranno salire i prezzi della pasta fino a 2,80-3,20 euro al chilo. Di contro stanno aumentando le promozioni: la Gdo, infatti, è disposta ad assorbire i rincari, perdendo tuttavia marginalità. Ma non è chiaro quanto possano resistere su questa linea.
Fin qui la crisi energetica, che rischia di essere strutturale. E poi c’è il Pnrr.
Il Pnrr non è un helicopter money
Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è sicuramente l’asset fondamentale su cui puntare per la ripresa post pandemia. Ed è stato evidente da subito.
Ma il piano da 191 miliardi condiviso con l’Europa è tutt’altro che un helicopter money. Sono rate semestrali che terminano nel 2026 e che vengono erogate solo a compimento – effettivo – di 61 riforme strutturali del Paese e di moltissimi investimenti per finanziare le note sei missioni: digitalizzazione, transizione ecologica, inclusione, istruzione, infrastrutture.
Quindi il Pnrr è certamente il treno su cui salire per rilanciare e trasformare il Paese, ma le incognite al riguardo sono molte e sono tutte legate alla effettiva capacità del sistema Paese di farcela.
La transizione non è un pranzo di gala
Come ha più volte sottolineato il ministro italiano alla transizione ecologica Roberto Cingolani, il prezzo che il sistema industriale rischia di pagare nel compiere la trasformazione sostenibile è inevitabilmente molto alto. E non è escluso che le risorse del Pnrr siano sufficienti e possano riguardare tutto il comparto interessato.
Il settore dell’auto sarà il primo a pagare il conto più salato, ma non certo l’unico.
E anche qui è inevitabile che si inneschi una crisi da trasformazione con evidenti ricadute sul sistema sociale e sul potere d’acquisto delle famiglie.
Certo, la transizione produrrà anche nuovi lavori e professioni, ma il computo finale al momento non è ipotizzabile e l’incognita con risvolti negativi è alta.
La difficile digitalizzazione della vecchia Italia
Anche la digitalizzazione, motore cardine del Pnrr, non sarà facile.
Seppure pandemia e lockdown abbiano costretto gli italiani ad essere più digitali, il Paese è inevitabilmente indietro, sia nel settore pubblico sia nelle mondo delle piccole e medie imprese.
Burocrazia locale nemica del Pnrr
Ancora più complicato sarà declinare il Pnrr sui territori, in quanto le macchine burocratiche locali paiono impreparate e inadeguate a reggere il carico di lavoro per la trasformazione di progetti in opere concrete. Soprattutto perché la ripetuta scadenza capestro delle rate Ue prevede una corsa contro il tempo che mal si concilia con la lentezza atavica della pubblica amministrazione italiana.
In questo senso il ministro competente Renato Brunetta ha messo in campo molte iniziative per ridurre questo gap (assunzioni, efficientamenti, ammodernamenti del sistema pubblico nazionale). Ma la sfida è ardua anche qui ed è sui territori il vero dilemma. Con il grande rischio che il Pnrr si impantani.
Se fallisce il Piano può diventare un boomerang
L’Italia dunque non può permettersi di perdere questa sfida, per un motivo molto semplice. Dovesse fallire, il piano per come è strutturato diventerebbe – appunto – un boomerang.
Lo ha spiegato bene il professor Marcello Messori docente di Economia Luiss Guido Carli, in un intervento poi ripreso anche dal nostro Osservatorio: “l’Italia ha scelto – diversamente da tutti gli altri grandi Paesi dell’euro area – di utilizzare non solo i relativi benefici (69 miliardi di euro ai prezzi di fine 2018) ma anche l’intero ammontare dei relativi prestiti (122,5 miliardi sempre ai prezzi di fine 2018). Il Governo italiano ha costituito un Fondo nazionale aggiuntivo per oltre 30 miliardi di euro e ha varato un Documento di economia e finanza (DEF) e una proposta di Legge di bilancio che prevedono consistenti spese pubbliche in disavanzo. Se tale ingente ammontare di risorse sarà effettivamente erogato dalla UE (per la parte di sua competenza) ma non sarà utilizzato dall’Italia in modo efficace ed efficiente, dopo il 2023 il rischio è di ritrovarsi con un Paese che sarà ancora più indebitato ma che non avrà rafforzato il proprio tasso potenziale di crescita”. “Questa eventualità è molto preoccupante perché – aveva spiegato Messori – nel 2023 verranno reintrodotte – pur se in forma rivista – le regole fiscali europee riguardanti i bilanci nazionali e vi sarà un rallentamento (se non un cambiamento di segno) nella politica monetaria espansiva attuata negli ultimi sette anni dalla Banca centrale europea. Ciò rende ancora più necessario superare la prima criticità del PNRR italiano e richiede l’individuazione di un punto di equilibrio fra sostegno alla crescita economica e riequilibrio dei conti pubblici, così da evitare che la dinamica del debito e della spesa pubblica si configurino come grande fattore di criticità”.
Il rischio dei prestiti garantiti
Ma i problemi non finiscono qui. Con la fine dell’emergenza – prevista salvo sorprese al prossimo 31 marzo – termineranno anche molti degli aiuti di Stato erogati durante la pandemia. Anche qui qualche numero: sono 2.603.940 le richieste di finanziamenti in favore di imprese, artigiani, autonomi e professionisti, per un importo complessivo di oltre 225,2 miliardi di euro. In particolare, le domande arrivate e relative alle misure introdotte con i decreti ‘Cura Italia’ e ‘Liquidità’ sono ad oggi 2.586.195 pari ad un importo di circa 223,5 miliardi di euro. Si tratta di prestiti che sono stati strutturati e attivati seguendo una semplice scommessa di fondo: la veloce ripartenza dell’Italia dopo il Covid. Se invece la crisi che abbiamo sopra descritto dovesse acuirsi, molte aziende potrebbero non essere in grado di coprire i soldi ottenuti e garantiti dallo Stato, creando così una ulteriore voragine nei conti pubblici.
Le ragioni del sì di Mattarella
E’ del tutto evidente dunque che nel post pandemia che abbiamo di fronte c’è il rischio concreto che la crisi energetica e le difficoltà di messa a terra del Pnrr possano avvitare la ripartenza del Paese e tradursi in una crisi di sistema, con il possibile innesco di una recessione economica. O peggio di un declino.
Questo quadro sopra descritto sarà sicuramente il motivo principale che deve aver spinto, due settimane fa, il Capo dello Stato Sergio Mattarella a rivedere i suoi piani personali e ad accettare nuovamente l’incarico offerto a gran voce da tutto il Parlamento.
Solo Mario Draghi può farcela
La conferma di Mattarella era determinante per conseguire e rendere automatica un’altra conferma: quella di Mario Draghi alla guida del Paese.
E’ fin troppo evidente che, davanti allo scenario sopra descritto, solo la guida di Mario Draghi può consentire all’Italia di superare questa curva della storia pericolosissima del post pandemia.
Solo lui ha la forza sul piano internazionale, la competenza e capacità sul fronte nazionale e il sostegno di una così ampia maggioranza in Parlamento.
La variante elettorale
Ma oltre all’incognita della crisi energetica, delle possibili varianti del virus, delle difficoltà del sistema Paese di attuare il Pnrr e il possibile buco nei conti pubblici per i prestiti garantiti c’è ancora un ultimo grande fattore di rischio: la fibrillazione elettorale. I partiti e movimenti politici per ragioni di sopravvivenza sentiranno crescere nelle prossime settimane l’esigenza del distinguo. Il bisogno di attaccare scelte e decisione per marcare una identità, in vista delle ormai imminenti elezioni politiche del prossimo anno.
Questo potrebbe essere un ulteriore elemento di instabilità.
Il ruolo del Parlamento
Ha ragione Mattarella quando richiama il Governo a concedere maggiore tempo al Parlamento per ragionare sulle scelte da compiere, ma occorre avere dall’altra parte un Emiciclo maturo, consapevole delle sfide e delle svolte necessarie – e spesso dolorose – che il Paese sarà chiamato a compiere per tracciare un’idea di futuro.
Il grande bivio dell’Italia
E’ il momento delle scelte, siamo ad un bivio ineludibile.
L’Italia può, in modo necessariamente coeso, imboccare la strada della trasformazione con il Pnrr (caricandosi sulle spalle il costo sociale che ne consegue) oppure dividersi e consegnarci un futuro di veloce declino economico e sociale.
Occorrerà la politica – che avrà in Mattarella il riferimento più alto – ma occorrerà anche la competenza e l’impegno di tutti per traghettare il Paese verso il futuro.
E occorrerà esserne capaci.








