Dopo 200 giorni da quando è nata la piattaforma digitale www.ripartelitalia.it e il relativo think tank magazine, l’Osservatorio Riparte l’Italia ha deciso di mettere insieme le idee e i suggerimenti di oltre 500 esponenti della società civile e di elaborare, sulla scia di tali considerazioni, 100 proposte per l’Italia, raccolte in un unico paper.
Vi proponiamo le nostre proposte divise per argomenti, in modo che sia più facile navigarle, consultarle e approfondirle, corredando le singole proposte con il testo del capitolo di riferimento presente nel Paper, scaricabile qui.
Le Sette Proposte per l’Università e la Ricerca presentate dall’Osservatorio Riparte l’Italia:
- Aumentare le risorse a disposizione della ricerca, allineando l’investimento dell’Italia a quello dei più virtuosi Paesi europei
- Affidarsi a un’entità che gestisca in maniera unitaria e coordinata i fondi per la ricerca
- Favorire l’integrazione tra ricerca di base, ricerca applicata e industrializzazione
- Promuovere forme di partenariato tra ricerca pubblica e privata
- Assicurare un’offerta formativa universitaria adeguata alle esigenze del mondo del lavoro
- Favorire la formazione terziaria innovando la didattica
- Promuovere percorsi di specializzazione nell’ambito però di una formazione di più ampio respiro
La ricerca scientifica, che si svolge anzitutto all’interno delle Università, riveste un ruolo chiave nell’ottica della programmazione della ripartenza del sistema Paese complessivamente inteso.
Silvio Garattini, fondatore e Direttore dell’IRCSS “Mario Negri”, ha riservato all’Osservatorio le sue riflessioni sul tema: «il Covid-19 ha avuto molti impatti sul nostro modo di vivere, suggerendo che vi possono essere molti aspetti della nostra vita che dovremmo cambiare. Uno di questi aspetti è stata l’attenzione per la scienza da cui l’opinione pubblica e soprattutto i politici hanno atteso risposte che spesso era impossibile dare. Alcuni suggerimenti. Anzitutto raccogliere i fondi di ricerca, dispersi fra i vari Ministeri collocandoli in una Agenzia Italiana per la Ricerca Scientifica (AIRS). Una struttura agile sotto la sorveglianza della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’AIRS dovrebbe amministrare i bandi di concorso con regolarità e prevedibilità. I Comitati dovrebbero essere eletti dai ricercatori, durare in carica solo pochi anni, con una integrazione di eminenti ricercatori stranieri. I bandi dovrebbero essere orientati prevalentemente non a singoli ricercatori, ma a gruppi multidisciplinari di ricercatori riconoscendo che i problemi si risolvono solo attraverso il lavoro collaborativo di “masse critiche”.
Naturalmente occorre aumentare le risorse. Basti pensare che per avvicinarci alla spesa per ricerca della Francia dovremmo aggiungere qualcosa come 20 miliardi all’anno. Rafforzare la ricerca pubblica significa fare da traino alla ricerca industriale e attrarre anche fondi stranieri. I fondi disponibili possono cambiare in modo graduale il nostro ruolo nella ricerca internazionale. Basti pensare quanto si può fare nella ricerca delle scienze della vita con un miliardo di euro all’anno. Sottratti cento milioni per apparecchiature ad alto costo con i rimanenti 900 milioni si possono creare 9.000 posti di lavoro che includono non solo lo stipendio, ma anche le risorse per realizzare la ricerca. La politica deve decidere se vuole far camminare il Paese oppure se vuole rinunciare alla conoscenza scientifica che si traduce nel tempo in innovazione ed in prodotti originali ad alto valore aggiunto.
I 37 miliardi di euro messi a disposizione dall’Europa per la sanità, potrebbero rappresentare una straordinaria occasione per rafforzare in particolare la ricerca che serve al Servizio Sanitario Nazionale per continuare a essere efficace e sostenibile. Un’attività così complessa non può operare spendendo lo 0,2 percento del Fondo Nazionale Sanitario pari a circa 115 miliardi, se si pensa che l’industria degli smart telephone spende per ricerca il 10 percento del suo fatturato» (1° ottobre 2020).
Il governo intende promuovere l’innovazione favorendo l’integrazione tra ricerca e applicazione industriale, la collaborazione tra pubblico e privato e stimolando i rapporti tra piccole start up innovative e grande industria, secondo un percorso che coincide con quello che stanno mettendo in campo le grandi imprese farmaceutiche che lavorano al vaccino per il Covid. Lo ha detto Gaetano Manfredi, Ministro dell’Università e della Ricerca, intervenendo al Deloitte Innovation Summit.
«Il nostro modello futuro di innovazione deve temer conto di una profonda integrazione delle fasi di innovazione, ricerca di base, ricerca applicata e industrializzazione non possono essere più separate ma devono essere integrate, anche da un punto vista fisico oltre che virtuale», ha spiegato Manfredi. «Poi serve una strategia che integri le politiche della ricerca con le politiche industriali» come pure «ci vuole il partneriato pubblico e privato, perché la gran parte delle scoperte arriva dal mondo della ricerca pubblica, dove c’è naturalmente la capacità di assunzione di un grande rischio, così come è ovvio che dopo ci vuole il ruolo del privato, del capitale per fare l’investimento e lo scale up della scoperta» (13 novembre 2020).
La ricerca gioca un ruolo chiave nella battaglia contro il cambiamento climatico e l’inquinamento.
A tal proposito, Stefano Laporta evidenzia che «Ragionare sulla centralità della ricerca nel processo impegnativo e importante di transizione ecologica significa prima di tutto condividere che l’obiettivo comune è l’individuazione di un equilibrio tra impatto ambientale, impatto sociale e sulle persone e impatto economico di ogni scelta che verrà presa: la sostenibilità non è una delle opzioni a disposizione, è l’unica strada che abbiamo» (27 ottobre 2020).
Il Mezzogiorno del Paese riveste un ruolo chiave nella ripartenza del sistema universitario in generale e di quello della ricerca in particolare, da porsi in relazione sempre più stretta con il mondo delle imprese.
In questa prospettiva s’inserisce “U-Match”, una strategia di politica industriale – disegnata da SVIMEZ e Fondazione Transita – che punta a riconfigurare e rendere produttivo nel Mezzogiorno del Paese il rapporto tra Università, le Grandi aziende capo-filiere e PMI territoriali. L’intento è attrarre investimenti della grande industria che opera sui mercati internazionali e trasferire, insieme con l’Università, opportunità ai giovani studenti e a quelle PMI che ambiscono ad allargare i propri orizzonti di mercato. Un modello capace, da un lato, di favorire l’interazione tra grandi e piccole università del Sud, così da formare e valorizzare al meglio il capitale umano e, dall’altro, di accrescere la capacità attrattiva delle comunità e migliorare il sistema industriale dei diversi territori.
Per riuscirvi l’Università deve però accettare la sfida di riconfigurare la propria missione per svolgere – in armonia con il contesto produttivo dei territori in cui opera e con cui interagisce – anche un ruolo di attrattore, ovvero di anello di congiunzione tra conoscenze, competenze e imprese. Ciò mettendosi in rete per condividere esperienze e buone pratiche, così da garantire un’offerta formativa adeguata. In modo particolare occorre dar vita a un sistema di alleanze con quelle imprese (champion) che operano nei mercati internazionali, cioè con quelle realtà aziendali vincenti che guidano filiere produttive complesse, che vivono nei «flussi» e contribuiscono a determinarli (29 giugno 2020).
Alcune informazioni utili sul mondo dell’Università provengono da un recente Rapporto AlmaLaurea, da cui emerge come il contesto familiare impatti sulle opportunità di completare il percorso di istruzione universitaria. Secondo il Rapporto i laureati provengono per il 31,8% e il 22,5% da famiglie della classe media, rispettivamente impiegatizia e autonoma, per il 22,4% da famiglie di più elevata estrazione sociale (ove i genitori sono imprenditori, liberi professionisti e dirigenti) e per il 21,8% da famiglie in cui i genitori svolgono professioni esecutive (operai ed impiegati esecutivi). La percentuale dei laureati di più elevata estrazione sociale sale al 32,7% fra i laureati magistrali a ciclo unico, percorso di studio che, com’è noto, comporta una previsione di investimento di durata maggiore rispetto alle lauree di primo livello. I laureati con almeno un genitore in possesso di un titolo universitario sono il 30,4% (nel 2009 erano il 26,1%).
Il contesto culturale e sociale della famiglia influisce anche sulla scelta del corso di laurea: i laureati provenienti da famiglie con livelli di istruzione più elevati hanno scelto più frequentemente corsi di laurea magistrale a ciclo unico (il 43,4% ha almeno un genitore laureato) rispetto ai laureati che hanno optato per un percorso “3+2” (27,2% per i laureati di primo livello e 31,2% per i magistrali biennali). Per quanto riguarda il background formativo dei laureati del 2019, si registra una prevalenza dei diplomi liceali (76,5%) e in particolare del diploma scientifico (42,7%) e classico (15,3%); segue con il 18,9% il diploma tecnico, mentre risulta residuale l’incidenza dei diplomi professionali (2,1%).
La quota di laureati con un diploma liceale negli ultimi dieci anni è aumentata considerevolmente, passando dal 67,9% del 2009 al 76,5% del 2019 (+8,6 punti), in particolare a scapito dei laureati con diploma tecnico, che scendono dal 26,8% al 18,9%. In termini di composizione per tipo di diploma il Rapporto in considerazione evidenzia differenze contenute tra i laureati di primo livello e quelli magistrali biennali (i diplomati liceali sono rispettivamente il 73,8% e il 76,2%), mentre i laureati a ciclo unico si caratterizzano per una forte incidenza dei titoli liceali: il 90,1% ha infatti una formazione liceale, in particolare scientifica (49,4%) e classica (28,7%) (15 giugno 2020).








