Non ci sono i grandi messaggi universali, le battaglie sociali e nemmeno i gesti iperbolici che esaltano le nuove frontiere dei diritti individuali. Non ci sono monologhi che danno lezioni.
E’ ufficiale, la leggerezza ha messo il turbo a Sanremo.
L’ultimo festival targato Amadeus per difendersi dall’assedio della politica, per evitare di scegliere e di schierarsi, sterilizza il dibattito pubblico che da sempre si crea intorno al Festival, evitando qualunque polemica.
Una scelta precisa, editoriale: rompere gli ormeggi con la realtà e con qualsiasi ambizione di luogo simbolo.
Certo, c’è il monologo del cast di Mare Fuori contro la violenza sulle donne, la commovente storia di Giovanni Allevi, ma si percepisce la cura nell’evitare qualunque tema divisivo o caldo.
Anzi, Amadeus si innervosisce solo quando stigmatizza le eccessive polemiche sul balletto di Travolta e le sue scarpe sponsorizzate.
Il “Va pensiero” c’è, ma non si vede
La quinta edizione sceglie la fuga da possibili e prevedibili polemiche con questo o quel ministro, questo o quel leader politico dell’opposizione e si rifugia nel ballo del qua qua, fagocitando anche Jhon Travolta, coinvolto in una gag del quale si è pentito un minuto dopo la diretta tv in mondovisione.
Del resto le elezioni europee sono alle porte, il direttore artistico e dominus dell’ultimo quinquennio dissimula un commiato che ha il sapore di una celata speranza di continuare.
Intanto sul palco appare Russell Crowe occupato in una sgangherata promozione di un suo tour musicale in Italia. E poi musica, tanta musica in pieno stile radio Deejay. Stavolta però con una selezione che pare funzionale all’obiettivo: zero polemiche.
Il Coro della Fondazione Arena di Verona sul palco intona “Va Pensiero” ma il pensiero non c’è.
Ma siccome al festival è “obbligatorio pensare” arriva in soccorso la canzone fuori gara di Paolo Jannacci e Stefano Massini “L’uomo nel lampo”. Ma va in onda perché non è divisiva.
Il diritto alla leggerezza
Il pubblico invece risponde in massa, quasi a rivendicare il diritto alla leggerezza. Il diritto a vivere la settimana della musica italiana, lontano dalle quotidiane retoriche che affollano giornali e tv durante tutto l’anno. Nemmeno i trattori in stato di agitazione riescono a fare breccia nella camera sterile del festival.
La coppia Fiorello – Amadeus terrorizzata dal rischio che qualunque sibilo sul palco possa essere letto da destra o da sinistra, ha scelto il campo neutro delle turbo gag, con l’amaro sapore delle comiche finali.
E’ questo il vero senso del festival? O semplicemente è mancato il coraggio?
Salviamo il soldato Fiorello
Una menzione d’onore merita il talento di Rosario Fiorello che mette la sua arte a disposizione del suo amico e collega Amadeus. Soldato in guerra per una settimana intento ad aiutare l’amico nella difficile operazione della sterilizzazione. Fino all’apoteosi della scenetta mal riuscita con Travolta. Chi cercava i monologhi corrosivi di Beppe Grillo, Roberto Benigni e persino Checco Zalone resta deluso. Si deve accontentare delle parole innocue di Teresa Mannino. E l’unica battuta al vetriolo è una ammissione: “Sanremo quest’anno è la settimana dell’incoscienza, un Carnevale” dice la Mannino.
In sintesi tanta euforia senza motivo.
La lezione dimenticata di Edmondo Berselli
Ma l’impresa di sterilizzare tutto appare titanica. Al netto delle scelte degli artisti da arruolare, non si può negare la dimensione politica che possiedono il canto e qualsiasi spettacolo che abbia una tale mole di «consenso» (i dati d’ascolto anche quest’anno sono impressionanti, soprattutto sulla fascia dei giovani 15-34), e non solo per il gusto che alcuni intellettuali hanno sempre avuto di riflettere sul popolare. Sanremo è da sempre, per tutti, «specchio della nostra epoca», o comunque finge molto bene di esserne incarnazione.
Edmondo Berselli firmò per il Mulino una Storia dell’Italia leggera per spiegarci che non sono mai solo canzonette. Lui stesso però ammetteva di non avere certezze sulla natura del potere della canzone, che se da un lato racconta la società che c’è, dall’altro crea la società che ancora non c’è. Era il 2007 e Berselli scriveva: “C’è infatti un discrimine assai incerto su ciò che sono le canzoni: specchi o specchietti della realtà sociale e culturale; oppure, a loro volta, manufatti “produttori” di cultura e di società. Voglio dire: si può interpretare Sapore di sale come la traccia lasciata da un cantautore a sigillo di un cambiamento avvenuto nei comportamenti erotici degli italiani; ma nello stesso tempo perché escludere che Gino Paoli abbia fatto da acceleratore all’evoluzione dei costumi, e che le parole di quella canzone abbiano prodotto o contribuito a realizzare quel cambiamento? Nel momento in cui una canzone ufficializza la trasformazione, ne diventa anche il manifesto e il canone”.
Una lezione quella di Berselli che pare dimenticata per seguire un copione sterilizzato, poco coraggioso.
E così il Festival di Sanremo passa dal conformismo di sinistra che per decenni ha dettato la linea del Festival al nuovo conformismo sterile che sceglie di non schierarsi per paura. Ma si dimostra vuoto di idee.








