Apparentemente – scrive Paolo Mieli sul Corriere della Sera – siamo di fronte all’ennesimo buco nell’acqua. L’annullamento (o il rinvio) dell’incontro di Budapest tra Donald Trump e Vladimir Putin è parso a tutti la prova del fatto che, a più di nove mesi dall’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, le trattative per una pace o una duratura tregua in Ucraina, sono tornate al punto di partenza. E l’universo pacifista, fortunatamente per Putin, s’è distratto talché nelle piazze occidentali nessuno, tranne esigue eccezioni, si dà pena per le stragi in Ucraina che si protraggono da quasi quattro anni.
Gli analisti si domandano come mai per Trump è stato relativamente semplice mettere attorno a un tavolo i grandi coinvolti anche alla lontana nella crisi israelo-palestinese e sia invece così arduo ottenere un analogo risultato — quantomeno in vista di un cessate il fuoco — in Ucraina. La risposta più immediata è che tra i grandi convocati a Sharm el-Sheikh c’era chi, a cominciare dallo stesso Trump, aveva il potere di fermare la mano di entrambi i contendenti. Mentre per ciò che concerne l’Ucraina non c’è nessuno che abbia la reale possibilità di intervenire su Putin con una decisiva forza di persuasione.
Rivivere un’epopea come quella di Stalin o di Pietro il Grande è agli occhi di Putin un’esperienza che non ha prezzo. Per quel che lo riguarda potrebbe andare avanti così all’infinito. Eppure, è possibile aspettarci una positiva sorpresa. Presto, di qui a qualche settimana. Proprio per il fatto che vengono annullati gli incontri di facciata. Quegli incontri vengono disdetti perché il «dossier» ucraino è passato dalle mani di Trump a quelle ben più competenti del segretario di Stato statunitense Marco Rubio, il quale ne discute con il ben addestrato ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. È questo che può accendere una luce di speranza.








