Lo ha affermato il presidente dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp). “Purtroppo continua a permanere l’equivoco che la forzata delocalizzazione presso la propria abitazione delle mansioni lavorative individuali precedentemente svolte negli uffici aziendali o statali si configuri come smart work. Si è anche affacciata l’ipotesi che in molti casi questo lavoro da remoto costituisca una sorta di vacanza pagata, come pure l’ipotesi contraria di uno straripamento incontrollato degli orari di lavoro a scapito dei tempi di riposo – ha spiegato – tutto questo, e altro, può succedere se lo smart work viene semplicemente identificato con il telelavoro; ma bisogna abbandonare questa confusione. Lavoro smart significa lavoro intelligente e tale può diventare se riflette un nuovo modo di utilizzare il lavoro nella produzione di beni e servizi”.
“Lo smart work consiste quindi nell’innestare la prestazione lavorativa in processi produttivi ridisegnati con l’utilizzazione di queste nuove tecnologie in modo da ottenere la combinazione di diverse modalità di lavoro, secondo funzioni gestite in presenza e funzioni gestite a distanza, nell’ambito di sistemi produttivi complessi e fortemente interconnessi”.








