La scuola, un male comune. Per molti un «supplizio». Deriva dal termine greco «σχολή», «scolé» – chi l’avrebbe detto sarebbe finita così? – indica invece il tempo dello svago, dell’ozio e delle occupazioni per sé stessi, tra cui il bel pensiero filosofico. Materia assente, praticamente, da quasi tutte le aule, fanno eccezione i licei, che hanno «Storia della filosofia». Non è neppure esattamente la stessa cosa. È come riconoscere che «non è richiesto di pensare», diceva il filosofo Guido Calogero.
Ma la scuola «supplisce» le famiglie. Mentre ormai tutto il resto sostituisce la scuola (si impara sui tutorial, si fanno corsi dappertutto). Quindi, perde, disperde, non ce la fa. Segna voti sul registro elettronico, assegna a sé stessa compiti sempre più vaghi. La scuola ha bisogno di sobrietà.
Una studentessa mi ha detto di un’insegnante: «Ci ascolta». Una frase che ribalta il paradigma. Gli studenti chiedono l’ascolto, gli insegnanti il silenzio. Era così ai tempi di Guido Calogero. «Si parla solo se interrogato», aggiungeva anni dopo Domenico Starnone. Oggi la scuola le tenta tutte, ma la sensazione di «pascolare le pecore» di Paola Mastrocola rimane, e con essa la responsabilità che pesa il giorno dopo. Suona la campanella, e all’appello un ragazzo non risponde, non c’è più.








