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Produttività e giovani. Rischiamo di finire nel campionato dei perdenti | L’analisi di Erico Verderi

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Nei giorni scorsi il CNEL ha presentato il primo rapporto sulla produttività in Italia, che abbraccia un ampio arco temporale: gli ultimi tre decenni. Il documento evidenzia un incremento medio dello 0,2%, inferiore sia alla media dell’UE27 del 1,2%, sia a quello delle altre principali economie europee (1% Germania, 0,8% Francia, 0,6% Spagna). Un buon andamento per il nostro Paese si registra esclusivamente nel quinquennio post crisi finanziaria (2009-2014) con 0,6%.

Occorre partire dal significato di produttività: una misura economica che calcola quanti beni e servizi sono stati prodotti per ciascun fattore utilizzato (capitale, tempo, lavoratore ecc.) in un dato periodo. Semplificando ulteriormente: il rapporto tra la produzione ottenuta e le risorse utilizzate. Spesso, quando si parla di produttività di un Paese, si divide il PIL per il numero di ore lavorate. A una maggiore efficienza produttiva si associa una migliore dinamica salariale, che a sua volta va a sostegno dei consumi e della qualità del vivere.

Il rapporto evidenzia che le dinamiche della produttività non sembrano riflettere l’andamento delle grandezze macroeconomiche. Ciò si spiega con l’interazione di due fattori: il primo, una forza lavoro poco qualificata e in rapido invecchiamento, abbinata a imprese di piccole dimensioni; il secondo, la riduzione dei salari reali, che ha incentivato le imprese a investire nel fattore lavoro a discapito del capitale, con conseguenti minori investimenti. La conseguenza è una minore tecnologia e digitalizzazione, che rendono l’Italia meno competitiva.

Al positivo dato di una occupazione in crescita significativa non corrisponde un pari aumento della produttività; nel concreto abbiamo più occupati, ma mediamente più poveri. Secondo i dati della Commissione europea, ogni ora lavorata in Italia produce un reddito inferiore di circa il 20% rispetto alla Germania e del 15% rispetto alla Francia. Produttività e competitività viaggiano più che a braccetto: per essere competitivi occorre essere innovativi, investire in tecnologia, digitalizzazione e capitale umano, tutti fattori strettamente connessi.

Da una parte serve una dotazione di capitale tecnologico, dall’altra persone in grado di governare il processo di digitalizzazione, in primis il corretto ed efficace utilizzo dell’intelligenza artificiale. Le imprese italiane che si avvalgono dell’IA sono una minoranza, posizionandosi agli ultimi posti in Europa, a siderale distanza da Stati Uniti, Cina e India. L’elevata parcellizzazione delle imprese non favorisce certo questo percorso.

Per recuperare il divario di competenze occorrono più laureati; lo conferma il recente rapporto dell’OCSE, che colloca l’Italia, tra i 38 paesi industrializzati, all’ultimo posto assieme al Messico, con solo il 22% dei 25-64enni detentori di un titolo universitario, a fronte di una media di oltre il 40%. La problematica è ancor più evidente nelle materie di Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica (STEM). Il ritardo nelle competenze si traduce in una bassa crescita della produttività, senza dimenticare la difficoltà a trattenere i nostri migliori talenti.

Considerate le buone notizie sui conti pubblici, in particolare un debito sotto controllo, ora risulta urgente un progetto sui giovani; è doveroso partire dall’istruzione e dalla ricerca. Le università sono il primo luogo dove investire, per aiutare i talenti a individuare soluzioni, strategie e visione sul futuro. Università non solo come luogo di ricerca, ma anche di confronto di idee, per favorire una socialità qualitativamente più elevata, fondata su civismo e rispetto altrui. In uno scenario geopolitico così complesso e altamente competitivo, il tempo è la variabile principale: occorre decidere subito quale politica adottare, quanto e come investire; il non agire o il solo tergiversare costa e relega nel campionato dei perdenti, e non è scontato che si possa giocare una partita di recupero.

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