Presidente Romano Prodi a livello mondiale come giudica la reazione, sotto il profilo economico, alle tremende conseguenze della pandemia?
«Io trovo – a differenza di altri osservatori – che ci sia una politica mondiale di reazione molto forte alla pandemia. Trump ha messo oltre 2.000 miliardi sul tavolo, la Cina si è mossa fortemente, l’Europa – che fino a un mese fa dicevamo essere immobile – si è attivata in maniera importante – si pensi, tra gli altri, alla cassa integrazione europea e alla banca europea degli investimenti – e persino dalla Repubblica federale tedesca sono arrivati segnali di un cambiamento epocale: la Germania ha abiurato la dottrina del bilancio in pareggio».
L’Italia a suo avviso come si sta muovendo?
«Il quadro è drammatico e duro e la crisi che stiamo vivendo ha portata eccezionalmente grave, ma io penso che anche la reazione sia forte. E il nostro Governo, seppur con le limitazioni derivanti dal nostro debito e dalla nostra gestione finanziaria, lavora nella stessa direzione dell’Europa e degli altri Paesi colpiti: cioè mette sul tavolo potere d’acquisto».
«Io credo – senza che questo voglia apparire un’adesione a un ottimismo incondizionato – che la controffensiva sia cominciata: ovviamente se vi sarà (come qualcuno dice nelle ultime ore) una nuova ondata della pandemia vi saranno dei problemi, ma una reazione forte è cominciata e coinvolge tutti i Paesi e tutte le grandi strutture economiche mondiali. Quindi nei prossimi giorni si capirà se il «vaccino economico» messo in atto funziona o meno».
«Questo vale anche per l’Italia dove, seppur con i limitati mezzi a disposizione, in una prima fase si è intervenuti distribuendo dove più era necessario, con un intervento c.d. “a pioggia”, e adesso si sta studiando una seconda fase che dovrà essere più raffinata e attenta ai settori produttivi».
La commissione Colao ha elaborato 102 proposte; come le valuta? quali da realizzare immediatamente?
«Premetto che, a mio avviso, il vero problema italiano non è l’elaborazione delle soluzioni ma la concreta realizzazione delle stesse.
Delle 102 proposte della commissione Colao – senz’altro apprezzabili ed interessanti nel loro insieme, senza entrare nel merito di ciascuna di esse – io credo che il Governo ne debba individuare due o tre alle quali dare la priorità, per poi valorizzare le altre.
In tale ottica, l’attenzione deve essere, a mio avviso, focalizzata in via assolutamente prioritaria sulle misure fiscali, occorre preoccuparsi di issare una «bandiera» che, a mio parere, deve essere quella della lotta evasione fiscale.
Io penso che occorra mandare al mondo finanziario ed alle istituzioni europee un messaggio chiaro nel senso che l’Italia intende mettersi in equilibrio per sempre.
L’equilibrio per sempre/di lungo periodo non è un equilibrio una tantum e può arrivare solo quando l’equilibrio arriva ai livelli medi europei, intendiamoci non a livello zero; è importante che i «peccati» siano a livello europeo».
Uno dei temi molto avvertiti oggi giorno e di cui si discute è quello della c.d. «burocrazia difensiva», con le imprese che sovente hanno l’impressione di essere di fronte a un «salto ad ostacoli». A Suo avviso è possibile immaginare un nuovo modo di concepire i rapporti tra «burocrazia-apparato» e imprese, una sorta di nuovo patto?
«Non credo sia una questione di patto. La burocrazia non ce l’ha con le imprese e le imprese non ce l’hanno con la burocrazia, ma entrambe «mettono la schiena contro il muro», per dirla con un linguaggio da boxeur.
Il civil servant non si sente sicuro con le norme giuridiche che dovrebbero proteggerlo, ma non si sente sicuro nemmeno il banchiere, allora il problema è eliminare il grigio dalle norme e non fare patti. Io credo che il civil servant quando potrà riaffermare il proprio potere facendo andare avanti la pratica lo farà volentieri. Se per difendere se stesso, il potere e anche la propria sopravvivenza deve bloccare qualcosa lo blocca. I comportamenti sono, ahimè, estremamente razionali da parte di tutti. Sono la legislazione e la fumosità della sua applicazione che rendono più lento colui che agisce. In altre parole, l’idea deve essere quella della semplificazione in un’ottica di maggiore intellegibilità e chiarezza.
Altra preoccupazione è se l’alta burocrazia di oggi sia ad un livello tecnico sufficiente. Sul tema si discute molto e l’incertezza che lamentavo prima ha senza dubbio anche fatto calare il livello medio della burocrazia, ma la situazione precedente si ripristina soltanto recuperando le regole e la chiarezza delle conseguenze delle proprie azioni.
Ripeto, non vedo patti e non li capisco nemmeno: ciascuno deve fare il proprio mestiere e deve, anzitutto, essere messo in condizione di farlo».
Il piano di Ursula von der Leyen ha incontrato alcune resistenze. Lei come lo valuta?
«Per me è stata una sorpresa per cui lo valuto bene, trattandosi di ciò che volevamo prima.
Piuttosto bisogna spiegare e comprendere perché è successo, perché è cambiata la politica. Il Governo tedesco ha capito di non poter ripetere gli errori della crisi greca del 2008, la quale, vista storicamente, rimane qualcosa di incomprensibile.
Ci ha ragionato la Commissione, immagino con l’accordo tedesco, ma soprattutto è centrale ciò che è avvenuto dopo: ossia, come accennavo prima, l’epocale cambiamento da parte tedesca del criterio di bilancio.
Quando ero Presidente della Commissione ho avuto più volte modo di affermare che il patto di stabilità era «stupido»: quando ci vuole un deficit ci vuole un deficit e, viceversa, se la situazione è attiva occorre avere un attivo. Porre la questione in termini aritmetici non mi è mai sembrato sano.
Di contro, il discorso da parte dei tedeschi era sempre stato quello per cui il pareggio di bilancio era «sacro», al punto di elevarlo a principio di rango costituzionale. Abbiamo fatto una sciocchezza a inserirlo anche noi.
Ecco perché il cambiamento tedesco è storicamente importante ed è ciò che mi induce ad essere – come ho esordito nella risposta alla prima domanda – un po’ meno pessimista sulla possibilità di gestione della crisi.
I tedeschi stanno facendo un passivo storico e questo va bene non solo per l’Italia, ma anche per la Germania, poiché consente di evitare la rottura dell’Europa, nella quale si concentra il loro mercato. E, d’altra parte, il politico tedesco avveduto è ben consapevole del significato che l’Italia ha per la Germania. Quando i Bavaresi non volevano l’Italia nell’Europa, mi confrontai con Stoiber, Presidente della Baviera, con il quale abbiamo discusso a lungo proprio dell’importanza dell’Italia e del mercato italiano per la Baviera: se si rompe lo schema europeo si rompe lo schema economico tedesco. Gli proposi facciamo un lattodotto da Monaco a Bolzano: arriverà il burro anziché il latte. Si fermò un attimo e mi disse sorridendo: ho capito cosa vuoi dire. La Baviera vive attraverso il commercio con l’Italia, per la Germania l’Italia è un mercato enorme.
Ecco, l’esperienza della scorsa crisi ha insegnato e questo mi consola».
Quindi, a Suo avviso, si può affermare che la pandemia stia generando una nuova idea di condivisione?
«Sicuramente sta costringendo a ragionare. Mentre la crisi finanziaria toccava solo indirettamente i popoli, la pandemia ha dato il senso della paura e della necessità di stringersi vicino ed ha spinto anche la Germania a rischiare. Poi, il processo che ha condotto a tale decisione è stato senz’altro complicato e, forse, ha influito anche la coalizione con i socialdemocratici.
Il risultato è inatteso e positivo, almeno per ora. Restiamo poi a vedere se anche il NextGenerationEu – termine che mi piace molto – troverà applicazione. Intanto il deficit tedesco oggi ci aiuta senza dubbio».
La pandemia ha dato l’impressione di essere al cospetto di un caos di competenze e di conflitti Stato-Regioni, era prevedibile?
«Sì, me lo aspettavo. Già da tempo occorreva un ripensamento: c’è una confusione molto forte, ci sono delle competenze che dovrebbero ritornare allo Stato e altre che possono passare alle Regioni. Il sistema è stato concepito sulla scorta di compromessi politici.
Io faccio sempre, agli studenti, l’esempio della campagna internazionale per il turismo: voglio dire, se alla fiera turistica di Shanghai ci andasse il padiglione del Molise sarebbe un problema perché il padiglione italiano (se non unito) sarebbe troppo piccolo per avere voce in quel contesto.
Serve un ripensamento ed è centrale definire confini chiari. Quello che senz’altro è emerso nella gestione della pandemia è l’indefinitezza dei confini: basti pensare che stiamo vivendo sull’incertezza di chi debba determinare la zona rossa».
Nei momenti più difficili e ancor oggi si discute di sanità; su quali interventi occorre concentrarsi?
«Non sono un esperto in materia di sanità, ma mi pare sia la Nostra Costituzione a chiarire i termini del problema e la divisione dei compiti. Ci sono fatti di interesse nazionale che devono essere risolti ed affrontati a livello nazionale. Probabilmente non si è riflettuto abbastanza sulle conseguenze della Costituzione ed è questa incertezza che sta pesando oggi sulla politica italiana: non solo sull’efficacia dell’azione, ma proprio sulla politica in se stessa».
Lei ha insistito molto sul tema della riforma fiscale e della lotta all’evasione quali punti chiave di un’azione efficace. In Germania è prevista una diminuzione temporanea dell’Iva. Un intervento di questo genere potrebbe giovare al sistema Italia?
«Il problema è se ci sono i soldi. Pensiamo alla flat tax: abbassare le tasse e introdurre la flat tax è utile nella misura in cui ci sono le risorse, altrimenti appare inutile. La Germania ha potuto aumentare 6/7 punti il suo deficit perché non aveva sostanzialmente rilevanza il suo debito.
Quello che, a mio avviso, in questo momento, è prioritario è un abbassamento della pressione fiscale che sia di rilancio all’economia, quindi un aiuto alle imprese, nelle diverse forme possibili: cuneo fiscale, intervento sull’IRAP, e così via.
La primissima fase è consistita in un aiuto alle famiglie più povere – con una situazione anche (ma era inevitabile, attesa la grave situazione italiana di assenza di dati, che genera difficoltà per chi deve prendere decisioni) poco controllata –, questa seconda fase deve guardare alle imprese e alle attività produttive».
La crisi ha fatto emergere una propensione, per certi versi già in atto, all’intervento pubblico nelle aziende. Ritiene sia corretto questo modo di procedere?
«Anzitutto è cambiata la dottrina: non siamo più nel liberismo assoluto, che alcuni ancora anacronisticamente propugnano.
Io sono stato il privatizzatore, ma devo dirle sinceramente che mentre la Francia – che ha una struttura industriale più debole della nostra – ha preservato le grandi imprese e le ha rafforzate perché lo Stato le ha minimamente e con attenzione aiutate, in Italia questo non si è verificato.
Pertanto, poiché in situazioni di crisi come quella odierna le imprese devono chiedere aiuto e lo Stato è obbligato ad aiutarle – perché «quando la casa brucia bisogna chiamare i pompieri», no? – non si può negare un intervento pubblico, fermo restando che la presenza dello Stato deve essere di carattere non gestionale, diretta a difendere gli interessi basilari del Paese e la sicurezza del futuro.
Pensi alla fusione FCA-PSA: ha di fronte un azionista italiano privato e dall’altra parte in minoranza lo stato francese. Chi è più forte secondo lei?
Altro esempio che le faccio: in Germania – paese non certo sovversivo e comunista – il Governo aiuta la Lufthansa ma vuole una partecipazione di minoranza (che la Lufthansa tende a rifiutare).
Dunque, concludendo, in questa fase di riassestamento della economia mondiale, una politica di tipo francese non è dirigista ma difensiva».
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Presidente l’Ilva, il più grande impianto siderurgico europeo, è un tema cruciale del dibattito. Si tratta davvero di un asset di cui l’economia italiana non può fare a meno?
«Non conosco l’evoluzione della situazione, quindi mi limito ad una sola considerazione.
Dieci anni, uscito da un convegno, incontrai Mittal e gli chiesi «qual è il più bello ed efficiente stabilimento siderurgico d’Europa?» e lui mi rispose Taranto. Poi sei/sette anni fa ha fatto l’offerta.
Di fronte a questo e al fatto che stiamo uscendo da troppi settori, io non dico certo che senza l’ILVA moriamo ma stiamo male, si aggrava la malattia.
Non so quale possa essere la soluzione – non avendo informazioni dirette da tempo – ma se colui che è diventato il più grande imprenditore siderurgico del mondo, dieci anni fa, diceva che si trattava del più grande stabilimento del mondo, bisogna riflettere».
Veniamo a Bologna e all’appuntamento del 16, 17, 18 giugno, promosso dalla Fondazione da Lei presieduta che, mi pare di capire, sia teso a provocare una riflessione in vista della costruzione della “Città del futuro” e di una nuova identità della città nel post pandemia.
«Sì, è proprio questo il senso. Bologna è sempre stata la città del sapere, nella sua storia. Non sto dicendo che Bologna sia la silicon valley, però andare a studiare nel futuro quali sono le risorse che questa città ha è importantissimo.
L’iniziativa muove dal confronto con alcune città medie europee – non Parigi, non Londra e nemmeno Barcellona – ma, ad esempio, Bristol e di come queste affrontano il problema del futuro, ciascuna nella sua specialità al fine di comprendere che cosa può fare Bologna.
Si badi bene: non Bologna sola – che è una media città europea – ma Bologna con l’Emilia, che è metà Parigi.
Negli ultimi anni hanno visto la luce iniziative interessanti: pensi alla motor valley che ha messo assieme le quattro università. A Parigi le Università si chiamano 1, 2, 3 e così via, in Emilia si chiamano Modena, Bologna, Reggio Emilia, Parma e Ferrara.
Bisogna focalizzarsi sui campi e sui settori in cui mettere in rete questo e sulle risorse umane che occorrono: e quindi la rete della sanità, la rete dell’investimento nei trasporti, nella residenza».
L’idea della rete che Lei ha evocato è molto presente anche nelle riflessioni avviate nella piattaforma Riparte l’Italia. Questo perché l’aggregazione – anche attraverso la creazione di reti di imprese e l’utilizzo del contratto di rete – in una prospettiva di globalizzazione che è profondamente cambiata all’esito della pandemia, ben può ritenersi debba essere valorizzata.
«Vede, non è facile. Le faccio un esempio. Io collaboro con la Bologna Business School – che sta facendo grandi progressi e sta avendo riconoscimenti internazionali – con la quale è venuta l’idea di offrire la consulenza gratuita di professori e alunni che ora sono manager alle piccole e medie imprese. Ebbene, non si è presentato quasi nessuno. L’interesse delle imprese è assolutamente bassissimo.
Io ci ho riflettuto: la diffidenza e lo scetticismo delle imprese in ordine alla possibilità che i “professori” risolvano i loro problemi sono naturali, ma pensavo almeno che dicessero «proviamoci», «vediamo almeno che cosa ci dicono». L’obiettivo dovrebbe essere quello di avvicinare nella vita pratica. Quindi: facciamo la rete ma facciamola sul serio, nelle cose di ogni giorno».
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Sempre con riguardo all’identità delle città del domani, quali sono, a suo avviso, il ruolo e i compiti degli amministratori locali per il futuro?
«Lo ha già detto lei prima: fare rete, perché una sfida continua è lavorare assieme.
Pensi alla motor valley. I protagonisti sono sparsi nel territorio: dalle montagne in provincia di Parma, al modenese, a Bologna e fino alle scuderie della Romagna; ma è un solo settore no? Non sono nella stessa città ma hanno dato un’idea di insieme talmente interessante da suscitare interesse persino in Cina. La soluzione è fare sistema.
Non c’era nessuna legislazione speciale, ma solo persone intelligenti di buona volontà che hanno capito che insieme si può arrivare a toccare fette di mercato più lontane ed estese».
Grazie Presidente.








