La gara per Acciaierie d’Italia (la seconda in pochi mesi) ha dato i risultati attesi.
L’interesse per l’ex Ilva è molto debole sia per lo stato di salute dell’azienda, sia per la situazione del mercato siderurgico, alle prese con i dazi americani e con una crescente sovracapacità produttiva che ha origine in Cina.
Sono dieci le offerte arrivate ai commissari, ma soltanto due riguardano l’intero complesso industriale e tra l’altro provengono da due fondi americani di private equity.
Le altre otto riguardano singoli asset di Acciaierie d’Italia e tra i candidati Marcegaglia figura in tre offerte e il gruppo Eusider in due.
Hanno disertato la gara il gruppo Baku Steel, che aveva primeggiato nella precedente, e Jindal Steel, che ha virato verso la Germania con l’operazione Thyssengroup, un produttore in crisi ma che non presenta la complessità giuridica dell’ex Ilva, senza trascurare il fatto che il gruppo indiano ha già avuto l’ok di IG Metall per il ridimensionamento produttivo da 12 a 9 milioni di tonnellate l’anno.
I sindacati hanno giudicato la gara un autentico fallimento chiedendo la nazionalizzazione.
Una valutazione che non sembra tener conto della realtà.
L’interesse verso Acciaierie d’Italia è inversamente proporzionale ai crescenti costi di risanamento ambientale e industriale.
Lo Stato non ha le risorse finanziarie e le necessarie competenze manageriali per gestire l’ex Ilva, che tra pochi mesi spegnerà le due candeline di amministrazione straordinaria.
Lo spezzatino appare come l’unica strada possibile per scongiurare il disastro.
La valutazione spetta al governo, la decisione è politicamente impegnativa, ma il tempo dei rinvii sta per scadere.