Un patrimonio che si è accumulato nel tempo, e che ha fatto della generazione di italiani “in uscita” la più ricca di sempre, a cui fa capo la maggior parte dei 7-8mila miliardi di dollari di ricchezza finanziaria stimata da Boston Consulting Group, una cifra che vale l’ottavo posto nella classifica mondiale.
Per la prima volta, però, questo immenso tesoro passerà a una generazione meno numerosa: dopo secoli in cui le società si sono impegnate a evitare la dispersione tra i figli degli averi – terre, animali, case, denaro –, oggi sta naturalmente avvenendo il contrario. Una sorta di gigantesco imbuto, in cui patrimoni grandi e meno grandi accumulati da padri, madri, zii e zie si riuniranno nelle mani di un numero (decisamente inferiore) di figli e nipoti.
“Sul risparmio incidono tutti i fattori demografici, economici e sociali che caratterizzano l’Italia”, dice Stefania Tomasini, senior partner di Prometeia. Che, previsioni alla mano, disegna uno scenario di crescente polarizzazione: oggi il 74% della ricchezza fa capo agli over 64, nel 2030 salirà al 76,4% e nel 2035 al 78,5%, per poi procedere ragionevolmente ancora verso l’alto. La nuova ripartizione del risparmio inciderà anche sulle scelte dei risparmiatori: “L’invecchiamento della popolazione italiana potrebbe portare a una progressiva riduzione del risparmio, con una quota crescente di pensionati che tendono fisiologicamente a disinvestire piuttosto che ad accumulare”, ragiona Tomasini.
Anche se, osserva ancora, “questa dinamica potrebbe essere almeno in parte controbilanciata dalla minor generosità futura del sistema pensionistico, che potrebbe sostenere un elevato tasso di risparmio anche in età avanzata per le generazioni future”. Prova ne è, in questo senso, la propensione al consumo, dato in lento ma progressivo calo fino al 2050, quando è stimata all’89,2%, contro il 91% di oggi. Segno di una potenziale, crescente attenzione a non eccedere con le spese ma a mettere qualcosa da parte in vista di un welfare più costoso e a pensioni più magre. Anche perché c’è un rischio tra le pieghe dei patrimoni degli italiani: le proprietà immobiliari, spesso concentrate in aree marginali dove il mercato potrebbe riservare brutte sorprese in termini di evoluzione dei prezzi.
Dunque qualcosa potrebbe cambiare, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, con l’avvicendarsi dai padri ai figli. Ecco perché è più interessante concentrare l’attenzione sul passaggio generazionale, e quindi sul gigantesco imbuto demografico in cui stiamo entrando. E che vedrà passare di mano, solo per restare alle famiglie più benestanti, 715 miliardi di euro entro il 2048. La stima è sempre di Prometeia, che si è concentrata sulla clientela delle banche private, a cui fa capo una ricchezza finanziaria stimata a 1.300 miliardi a fine 2023.
Oltre la metà, si diceva, verrà lasciata in eredità a figli e nipoti, meno numerosi di genitori e zii. Il primo scalino, quello che si salirà tra il 2025 e il 2030, sarà il più alto: nei prossimi cinque anni infatti cambierà titolare il 15% della ricchezza di questa fascia di italiani, un passaggio di consegne da 200 miliardi, per poi scendere progressivamente fino ai 70 miliardi del periodo 2046/2048. Un flusso enorme, che impatterà poco sull’erario (visto il trattamento fiscale molto generoso in materia di successioni), ma sarà causa di una nuova polarizzazione, visto che la nuova generazione è meno numerosa di quella che lo precede. In pratica: più risparmio in meno tasche, sempre più piene.
“Il trasferimento di ricchezza a cui stiamo iniziando ad assistere è una straordinaria occasione per provare a colmare almeno una parte dei divari che attraversano la nostra società”, ragiona Gian Paolo Barbetta, docente all’Università Cattolica, responsabile del Centro di ricerche sulla cooperazione e sul non profit dell’ateneo. In un recente quaderno della Fondazione Cariplo, Barbetta e i suoi coautori hanno stimato che il passaggio generazionale vedrà trasferiti 1.100 miliardi tra il 2020 e il 2030 e addirittura 3.222 miliardi tra il 2030 e il 2040. Molta di questa ricchezza verrà da famiglie che non hanno eredi diretti, cioè da single o coppie senza figli.
In questo caso, il trasferimento di ricchezza può rappresentare una opportunità anche per gli enti del Terzo Settore, se questi ultimi saranno in grado di convincere i potenziali donatori. Nel caso puramente teorico in cui tutte le persone singole e le famiglie senza eredi dovessero devolvere interamente il proprio patrimonio a istituzioni di beneficenza, i lasciti al Terzo Settore sarebbero pari a 20,8 miliardi nel 2030 e 88,1 miliardi nel 2040. Ma la questione è più complessa perché, in Italia, solo in presenza di un testamento una parte della ricchezza disponibile (esclusa la quota legittima) può essere devoluta al Terzo Settore. “Si apre uno spazio per politiche e interventi che aumentino la propensione dei cittadini a fare testamento che, sulla base dei dati disponibili, è ancora molto bassa. A questo dovrebbero lavorare i fundraiser del Terzo Settore.”
Vedremo con il tempo se la politica oserà affrontare un tema così tecnico e sensibile dal punto di vista del consenso elettorale. In ogni caso, qualcosa cambierà nelle scelte di investimento delle nuove generazioni. “Perché qualcosa è già iniziato a cambiare”, interviene ancora Tomasini. “Gli under 50 hanno competenze maggiori, ma soprattutto una sensibilità più spiccata sulla transizione ecologica e più in generale sugli investimenti sostenibili, fino ad arrivare alla finanza d’impatto, una nicchia che sta conquistando una fetta crescente di pubblico.”
Segnali di avvicinamento tra risparmio ed economia reale, di cui ad esempio potrebbero beneficiare segmenti specifici di mercato come il venture capital o il private equity, gli investimenti rispettivamente indirizzati verso le aziende giovani e innovative o quelle più navigate e non quotate. Un movimento geologico che, se governato e regolato, può finalmente veder valorizzato il grande giacimento di cui dispone l’Italia (così come tutta l’Europa) che finora ha fatto più gli interessi altrui che i nostri, come peraltro stigmatizzato dai recenti rapporti sulla competitività di Enrico Letta e Mario Draghi.