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Non possiamo ridurre Papa Francesco a un “santino”, ci ha insegnato ad affrontare le tempeste | L’analisi di Elena Ugolini

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Ero al Ministero dell’Istruzione quando è arrivata la notizia della fumata bianca, era il 13 marzo 2013. Siamo scappati come fanno tutti i cittadini di Roma in piazza San Pietro per vedere dal vivo il nuovo Santo Padre che ci ha salutato con un allegro “buonasera”, dichiarando subito di arrivare dai “confini” del mondo.

Nessuno tra i non esperti avrebbe mai potuto pensare che potesse essere lui il nuovo Papa e nessuno avrebbe potuto pensare “chi” sarebbe stato Papa Francesco in questi 13 anni. Penso che se Bergoglio avesse potuto scegliere di lasciare questo mondo, avrebbe scelto di farlo così. In mezzo alla gente fino alla fine, perfettamente consapevole e traboccante di affetto verso chi lo incontrava. Sono tanti gli amici che hanno avuto la possibilità di essergli particolarmente vicini. Tutti si sono sentiti preferiti da lui, come se fossero “unici”.

È quello di cui avrebbero bisogno i nostri giovani! È quello che Papa Francesco ha detto al mondo della scuola italiana il 10 maggio del 2014, scrivendo un manifesto indelebile di quello che dovrebbe essere la scuola. Il cristianesimo è questo sguardo divino, di amore assoluto, di cui si può fare esperienza, attraverso l’umano. Questa è la sorgente della forza e della capacità di abbraccio di Papa Francesco e chi non lo riconosce, gli fa il più grande torto possibile.

Non è stato un predicatore di valori generici, ma un testimone della sorgente da cui quei valori possono attingere concretezza. L’impegno per la pace, l’attenzione agli ultimi, il rispetto per l’unica casa comune che abbiamo… in lui nascevano dalla fede, dal riconoscimento che tutto è un dono di Chi ci ha fatto e di Chi continuamente ci “fa”.

Per capire la natura del pensiero di Bergoglio e la sua posizione più autentica penso occorra andare a quel pomeriggio del 27 marzo 2020, quando solo, sotto la pioggia battente, davanti all’icona della Vergine di Santa Maria Maggiore, ha parlato a tutto il mondo annichilito davanti al covid. Dovremmo partire da quelle parole per cercare di costruire un futuro diverso: “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità.

La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così della immunità necessaria per far fronte all’avversità.Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli…

“Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.”

O avremo il coraggio di tornare al cuore del messaggio di Papa Francesco o rischieremo di ridurre la sua figura ad un “santino” a cui far dire quello che ci fa più comodo. O riscopriremo il terreno comune su cui poter costruire una civiltà dell’amore e della pace a partire dalla nostra Europa, o la sua testimonianza sarà vana.

Mi ha colpito un articolo molto critico di Sergio Belardinelli che chiudeva con un invito che, in verità, penso avrebbe potuto sottoscrivere lo stesso Papa Francesco. “Questa Europa avrebbe un grande bisogno della Chiesa. Ma anche la chiesa, forse proprio per aver voluto essere troppo politica, sembra essere diventata sempre più irrilevante, sempre più incapace di generare fede e speranza. Oltretutto, anziché puntare ostinatamente alla sua Rievangelizzazione, ha considerato l’Europa una sorta di causa persa, abbandonandola al suo destino. Un gigantesco errore culturale. Proprio l’Europa, infatti, diciamo pure, l’uomo europeo, nato principalmente nel grembo del cristianesimo, è ciò di cui oggi il mondo intero avrebbe massimamente bisogno”. 

Rievangelizzare non vuol dire fare prediche. Se nelle nostre strade, nelle nostre scuole, nelle nostre città, nelle nostre imprese, se nelle istituzioni, se in politica ci fossero uomini e donne come Francesco le cose sarebbero diverse.

Diciamo che si apre un momento di passaggio molto interessante.

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