Su Repubblica Ezio Mauro si occupa di Aleksej Navalny, “morto di opposizione”. Un punto decisivo, questo, afferma Mauro, che dev’essere chiaro all’opinione pubblica europea, com’è chiarissimo in Russia per le migliaia di persone capaci di sfidare le polizie attraversando le piazze per deporre fiori, candele, immagini e lumini negli altari laici di strada che ricongiungono l’oggi al passato sovietico, rendendo omaggio all’ultima vittima della repressione putiniana.
Di fronte all’evidenza politica dell’accaduto, la cattiva coscienza della nostra realpolitik (nel comodo riparo della libertà occidentale) è pronta ad accusare il nemico del Cremlino di egoismo narcisistico, piegando la curva della sua giovane biografia fino a farla coincidere con la martirologia garantita dalla scelta del sacrificio.
Come se per tutti non ci fossero ormai principi e ideali, visto che noi non siamo in grado di tener fede ai valori in cui diciamo di credere, e non esistessero più gli assoluti: per i quali naturalmente chiunque si augura di non dover morire, ma forse — almeno per qualcuno — vale la pena vivere, anche nelle latitudini dell’abuso e del sopruso, sopportandone le conseguenze senza per forza barattare la coscienza con il cinismo, come consiglia la cifra dell’epoca.
Non c’è bisogno delle risultanze dell’autopsia per capire come il prigioniero dello Stato che aveva tentato due volte di ucciderlo sia stato accompagnato dal governo in una progressiva restrizione di vita e privazione di libertà, incanalato verso l’esito inevitabile, privato giorno dopo giorno di qualsiasi motivazione per l’esistenza residua che non fosse la pura resistenza, anzi ormai la testimonianza, il gesto più che la parola.
Il caso Navalny è talmente incarnato nella realtà russa che diventa lo specchio di ogni cosa, dalla repressione interna all’invasione dell’Ucraina, alla campagna del Cremlino contro la democrazia liberale, che trova qui oggi la sua prova del nove, il suo vero significato.








