L’Italia – ricorda Stefano Folli su Repubblica – è la nazione meridionale più grande, protesa nel mezzo del Mediterraneo. Le sue iniziative hanno un rilievo immediato nel teatro del conflitto di Gaza.
Anche e soprattutto per questo gli scioperi pro Palestina e i relativi disordini sono più vigorosi e talvolta più cruenti che altrove in Europa.
Ora una pagina è stata voltata: il riconoscimento dello Stato di Palestina – un gesto simbolico ma con enormi riflessi politici – deciso da capitali di primo piano, a cominciare da Londra e Parigi, ha obbligato anche Roma a prendere una decisione.
Finora Giorgia Meloni si è mossa in sintonia con Berlino: e tutti capiscono perché i tedeschi siano così prudenti prima di compiere passi definitivi contro lo Stato ebraico. È la stessa prudenza del nostro esecutivo, nonostante la pressione crescente di un’opposizione radicalizzata a sinistra e ora legittimata, diciamo così, dal passo delle grandi capitali.
Roma ha dunque deciso di subordinare il riconoscimento dello Stato palestinese alla condizione che Hamas esca di scena; il che implica come primo passo, è ovvio, la liberazione degli ostaggi superstiti.
In apparenza è un’apertura alla linea europea, di fatto è un modo per articolare una posizione vicina agli Stati Uniti. E in questo caso Donald Trump c’entra in quanto presidente in carica, ma qualunque amministrazione americana ha sostenuto in passato e sosterrebbe oggi che non si negozia con un’organizzazione terroristica.
Sul piano dei simboli con valore politico, il governo Meloni è quindi uscito dall’immobilismo, ma non si può dire che abbia ricalcato la posizione di Parigi. Anzi.
L’Italia mantiene una sua linea autonoma, vicina a Washington e Berlino. Del resto, se guardiamo a Israele, anche le fazioni politiche più ostili da sinistra a Benjamin Netanyahu rifiutano di negoziare con Hamas la cessione di territori.
Avere a fianco uno Stato governato da gruppi di terroristi è un’ipotesi rigettata da tutti.