Se l’economia italiana fosse un’auto sarebbe paragonabile ad una fuoriserie con il motore potente, ma con la carrozzeria ammaccata.
Così la vede il nel rapporto annuale sull’economia e la finanza pubblica (Article IV).
L’analisi non manca di esprimere apprezzamento per la “resilienza” del nostro sistema, capace di affrontare le turbolenze globali senza sbandare troppo.
Ma, attenzione, ai graffi e alle ammaccature che si vedono sul cofano e sulle fiancate: un bilancio solido, certo, ma tante sfide strutturali che rischiano di mandare in fumo tutto il lavoro fatto.
Da un lato, lo studio celebra l’economia italiana per la sua resilienza, per aver mantenuto il timone saldo mentre il vento globale soffiava forte in direzione contraria, ma dall’altro non nasconde le difficoltà strutturali che rischiano di comprometterne la stabilità futura.
La prova più recente arriva dai risultati del primo trimestre di quest’anno, che “nonostante l’accresciuta incertezza sulla politica commerciale globale”, è riuscita a mettere a segno una crescita dello 0,3% anche grazie a una “continua crescita degli investimenti”.
E questo fattore, con l’accelerazione prevista per la fase finale del Pnrr, dovrebbe aiutare a resistere in attesa che si attivino anche le ricadute positive del maxiprogramma di spesa deciso dal Governo tedesco.
In un contesto del genere, ma qui ovviamente i decimali delle previsioni si avventurano su un terreno reso scivoloso dall’incertezza sulle prospettive, l’Italia dovrebbe continuare a misurare una “crescita moderata” anche quest’anno (l’Fmi prevede un +0,5%, un decimale sotto le stime del Governo), e una leggera ripresa ulteriore nel 2026 (+0,8%) seguita da una altrettanto modesta decelerazione (+0,6%) nel 2027.
Tanto basterebbe a mantenere il deficit sotto al 3% del Pil nei prossimi due anni, dopo aver chiuso il 2025 al 3,3% come previsto anche dal Governo, mentre la linea del debito tracciata dagli analisti del Fondo viaggia circa un punto di Pil più in alto di quella disegnata al Ministero dell’Economia.
Anche per questa ragione il report chiede di far salire al 3% del prodotto l’avanzo primario nel 2027, raddoppiando l’ambizione governativa che al momento lo prevede per quell’anno all’1,5%.
Un’ipotesi, questa, che però appare complicata da mettere davvero in agenda, soprattutto in tempi dominati dalla prospettiva di un rilancio degli investimenti nella Difesa che nonostante le attuali prudenze italiane appare destinato a farsi sentire non poco sui conti.
Più aperto il confronto sulle altre indicazioni del Fondo, che chiedono di contenere la spesa pensionistica, ridurre le garanzie statali sui prestiti e migliorare l’efficienza della spesa.
Tutti temi, questi, tornati a più riprese nelle analisi dello stesso Giorgetti, che insieme al suo vice Maurizio Leo incontra nelle righe del report anche una promozione sui risultati prodotti in termini di gettito da adempimento spontaneo (compliance) con l’enfasi messa dalla riforma fiscale sugli strumenti “preventivi” nelle mani del fisco.
Nel panorama occupazionale, l’Italia ha registrato risultati incoraggianti.
Il tasso di disoccupazione è sceso al 5,9%, ai minimi storici dal 2011, e la qualità del lavoro, in generale, è migliorata.
Un dato positivo che non deve però far abbassare la guardia.
L’occupazione giovanile è ancora un dramma: il tasso di disoccupazione tra i giovani under 25 si mantiene intorno il 20%.
È un dato che grida, in qualche modo, il ritardo del nostro Paese nel mettere in atto politiche concrete di inclusione e formazione.
Inoltre, la “guerra” alla precarietà non è vinta.
Nonostante l’espansione dell’occupazione, il mercato del lavoro italiano rimane frammentato, con un’elevata incidenza di contratti a termine e una scarsa mobilità tra i settori.
Le disuguaglianze regionali restano un’altra piaga che danneggia la stabilità occupazionale, con il Sud che continua a faticare per attrarre investimenti e creare posti di lavoro di qualità.
Non si può parlare di economia italiana senza affrontare il tema del debito pubblico.
La situazione è solida, ma per quanto ancora?
Il rapporto debito/Pil è sceso dal picco del 156% nel 2020 al 137%, un dato che fa ben sperare soprattutto perché i conti sono tornati in attivo al netto degli oneri finanziari.
Il FMI, infatti, ha lodato la gestione del debito, evidenziando come il nostro Paese abbia saputo contenere il rischio di una spirale di aumento del debito grazie alla politica fiscale prudente e alla stabilità dei tassi d’interesse.
Tuttavia, il debito rimane una delle sfide più gravi.
L’Italia, pur riuscendo a evitare una crisi immediata, è un Paese che vive con una pesante zavorra finanziaria.
Questo implica che ogni manovra economica futura dovrà fare i conti con un quadro di finanze pubbliche che, seppur gestito con attenzione, resta vulnerabile ai cambiamenti di scenario globali.
Il rischio, infatti, è che l’incremento dei tassi di interesse o nuove difficoltà fiscali possano riaccendere la paura di una crisi del debito, con tutte le devastanti ripercussioni che ciò comporterebbe.
La fotografia scattata dall’FMI è chiara e complessa: l’Italia è forte, ma non abbastanza forte per sperare in un futuro di crescita solida e duratura senza affrontare le sue sfide strutturali.
Se il bilancio pubblico è solido, la crescita occupazionale è positiva e il debito è sotto controllo, resta comunque una fragilità di fondo che non può essere ignorata.
L’Italia deve smettere di accontentarsi di una resilienza che non basta a garantirle un posto tra i veri protagonisti europei.
È il momento di accelerare sulle riforme, di superare l’immobilismo che da troppo tempo la attanaglia.
Solo così il Paese potrà davvero trasformare la sua forza in un futuro prospero e competitivo.








