Ha certamente ragione Elena Ugolini: serve coraggio e decisione per affrontare con mente rinnovata i giganteschi problemi che decenni di trascuratezza e opportunismi hanno caricato sulla scuola che esce stremata dalla pandemia.
La scuola esce dalla pandemia certamente più ricca, per gli enormi stanziamenti emergenziali, ma paradossalmente molto più povera, perché consapevole di essere priva di strumenti strutturali per potere affrontare la gigantesca perdita di formazione e la parallela crescita di povertà educativa e sociale che la combinazione di eventi globali – economici e pandemici – stanno scatenando. E il senso di insufficienza determina uno stress insostenibile in un sistema tarato per una gestione standard dell’ordinario, immerso in una convulsa trasformazione. Tale sofferenza giustamente spinge le associazioni sindacali a indire scioperi.
Quello che lascia stupefatti è che il linguaggio non cambi, le lamentele si ripetano, come concrezioni solidali e coerenti a quell’immobile e gigantesco Moloch. Quando invece la disponibilità di denaro del PNRR reclama una visione più alta. A partire certamente da un contratto nuovo, ma che riconosca economicamente la necessaria dignità ad una professione umiliata e disprezzata da decenni, cui si è continuato a proporre un silente patto di liberazione dal lavoro – non- controllato laddove manchi e mai riconosciuto laddove sovrabbonda – a scapito della valorizzazione e del credito sociale, mentre il merito e la professionalità vengono continuamente immolati al totem della tutela pelosa e dell’interesse politico di turno.
Possibile che una tradizione sindacale emiliana, avanzatissima nelle competenze aziendali, capace di una moderna, intransigente interlocuzione con la amministrazione per la qualità e il valore del lavoro; una tradizione sindacale che ha fatto della cultura del lavoro e della crescita economica solidale un punto di riferimento della ricchezza del territorio, capace di attrarre innovazione e investimenti, con livelli e qualità di occupazione altissimi; possibile che una tale tradizione sindacale emiliana non riesca a dire una parola che suoni nuova nel panorama nazionale – ora che gran parte di quel sistema emiliano ha responsabilità nazionali – di fronte al degrado arcaicamente impiegatizio in cui è tenuto ancora il lavoro nella scuola?
Nessuna sfida ad un contratto totalmente nuovo? Nulla sul riallineamento delle retribuzioni alle professionalità più avanzate, che colmi almeno il gap con le retribuzioni della dirigenza amministrativa o dell’insegnamento universitario? Nulla su una formazione di alta qualità, continua, controllata, certificata e collegata alla progressione di carriera? Nulla sulla ridefinizione dei carichi di lavoro, uscendo dalla umiliazione della contabilità impiegatizia delle ore settimanali? Nulla sulla degradazione retributiva parallela alla femminilizzazione dei ruoli e alla progressiva marginalizzazione sociale ed economico-culturale delle insegnanti? Nulla sulla totale assenza di un sistema serio di valorizzazione delle competenze collegato alla progressione di carriera, ora narcotizzata negli umilianti automatismi di incrementi settennali? Nulla sulla ridefinizione dei profili, delle competenze e delle responsabilità? Nulla su sistemi di ingaggio e formazione in entrata di vetustà archeologica, tra graduatorie a punti e precariato cronicamente supino alla iniziativa e alla opportunità politico-amministrativa di ciascun momento?
Un silenzio urlato? Anche del sistema politico amministrativo locale?








