Pubblichiamo di seguito l’intervento di Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e firma di punta del giornalismo italiano durante l’evento che l’Università Bocconi ha organizzato nel giorno in cui, nel 120esimo anniversario della nascita dell’Università, Mario Monti (dopo 30 anni) lascia simbolicamente il testimone di presidente dell’ateneo ad Andrea Sironi.
“Il professor Monti è da quasi mezzo secolo un editorialista del Corriere della Sera. Se non rischiassi la querela potrei dire che è un giornalista di lungo corso. La linea del Corriere, in politica economica, l’ha fatta, per lunghi tratti, anche e soprattutto lui con i suoi scritti. Con l’eccezione di quando – come commissario europeo prima e premier dopo, interrompendo la propria collaborazione – divenne idealmente una controparte, cioè un potere da sorvegliare, incalzare, criticare. Perché è giusto che sia così. Un giornale, utile alla società, non deve fare sconti a nessuno. Il professor Monti, per la verità, non chiese sconti.
Anzi ebbe qualche non trattenuto dispiacere e non solo per gli articoli critici nei confronti del suo governo dei colleghi bocconiani Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
Le storie di questa grande università e del Corriere della Sera, oggi diretto da Luciano Fontana, che è qui con noi questa mattina, sono fortemente intrecciate. La prima sede della Bocconi era accanto a quella del Corriere, in largo Treves. Pochi passi da via Solferino.
Un predecessore del professor Monti, come presidente dell’ateneo, fu Giovanni Spadolini che diresse il Corriere e divenne poi, da leader repubblicano, il primo presidente del Consiglio non appartenente alla Democrazia Cristiana. In quella prima piccola sede della Bocconi, in largo Treves a Milano, insegnava Luigi Einaudi, futuro governatore della Banca d’Italia e predecessore del presidente Mattarella. Ma soprattutto – e mi scuso per la mia sfacciata partigianeria – principale editorialista del Corriere, prima e dopo il Fascismo che gli impedì di scrivere e di insegnare.
Libero Lenti, suo studente e poi docente alla Bocconi ed editorialista del Corriere, ricordava che Einaudi si attardava sulla cattedra per scrivere i suoi articoli che poi portava di persona al giornale, che era a due passi.
Il testimone di Einaudi è passato a Monti. E allora io vorrei riprendere alcune parole del professor Monti dedicate proprio a Einaudi. Sono poste, non a caso, in coda al primo libro (Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi) che raccolse i suoi articoli per il Corriere.
L’opinione pubblica – è la sostanza dello scritto che riassume il pensiero di Einaudi – va informata con onestà, semplicità e chiarezza, deve conoscere le varie soluzioni di un problema, scegliere a ragion veduta, avendo coscienza degli effetti, soprattutto nel tempo, per le future generazioni, di ogni decisione. Solo così l’opinione pubblica è avvertita e responsabile. Altrimenti è prigioniera delle facili illusioni e delle false promesse che la classe politica elargisce con troppa generosità.
Credo che Monti, nella sua lunga collaborazione con il Corriere, sia stato animato da questo spirito einaudiano che ritroviamo in molte delle sue battaglie economiche e civiche. Anche se per consegnare i suoi articoli è stato costretto, all’inizio, a fare un po’ più di strada di Einaudi.
Monti cominciò a collaborare al Corriere nel 1976, direttore era Piero Ottone. Condivise la rubrica “Osservatorio” con altri autorevoli editorialisti come Nino Andreatta e Franco Modigliani. “Contro l’inflazione giocare d’anticipo” era il titolo di un suo intervento del 13 luglio del 1978.
In quell’articolo, ma non solo in quello, si delineava l’idea che una tassa così ingiusta e regressiva come l’inflazione andasse combattuta con un impegno programmatico di tutte le parti sociali, per controllare meglio la crescita dei prezzi, ma soprattutto per tutelare i più deboli.
Era l’abbozzo di una politica dei redditi che un altro governatore della Banca d’Italia, diventato premier, Carlo Azeglio Ciampi, mise in pratica dopo la crisi valutaria del 1992.
La politica monetaria non bastava allora, come non basta adesso in un contesto totalmente differente nel quale però si è persa la memoria di ciò che significhi realmente un fenomeno inflattivo che mina il valore reale di redditi e risparmi.
E qui arriviamo alla principale battaglia di Monti con i suoi scritti sul Corriere. Ovvero quella che portò al cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro nel 1982.
La posizione del professore non piacque inizialmente al governatore della Banca d’Italia. Guido Carli riteneva addirittura “sedizioso” che la banca centrale non finanziasse, creando moneta, il disavanzo del settore pubblico voluto dalla classe politica eletta dai cittadini.
Ma con grande onestà intellettuale, sarà lo stesso Carli a riconoscere, in un articolo su Repubblica, del 30 novembre del 1982, che “il rifiuto delle autorità monetarie ad agevolare il finanziamento del Tesoro a scapito del finanziamento della produzione, avrebbe indotto più tempestivamente la classe politica a provvedere al contenimento dei disavanzi”.
Rimane aperto l’interrogativo, che so caro al professore, se a quel divorzio romano, così tanto contestato anche recentemente, non si sia posta fine a Francoforte nel 2015, con gli acquisti massicci di titoli del debito pubblico da parte della Banca centrale europea, così necessari per affrontare le emergenze, così diseducativi nel rendere meno urgenti le riforme strutturali, di cui soprattutto l’Italia ha bisogno.
Il racconto dell’Europa, nei suoi scritti, è sempre stato caratterizzato da rigore tecnico e passione civile. Ricordo solo quanto scrisse, il 3 maggio del 1998, al momento della nascita dell’euro.
Accanto al suo testo apparve un commento di Tommaso Padoa- Schioppa. “Politico e democratico – scriveva Monti – l’euro lo è stato fin dal concepimento. il tutto è avvenuto con un grado di informazione e di dibattito nell’opinione pubblica non perfetto, ma ben superiore a quello che caratterizza gran parte delle decisioni politiche. Ma l’Europa ora ha davanti a sé sfide che richiedono un supplemento di responsabilità”.
Che forse, aggiungo io, negli anni è mancato. E non solo nel nostro Paese.
Nel pensiero di Monti, le riforme vere sono sempre indigeribili nel breve periodo.
Purtroppo i frutti si colgono in tempi diversi dai cicli brevi della politica.
L’Italia aveva bisogno e ha bisogno di più mercato, ma anche di più Stato al quale è demandato il compito di correggere squilibri e iniquità.
Anche con la leva fiscale di cui oggi è addirittura proibito parlare.
E la polemica su questa posizione liberista fu dura, anche se leale, con economisti di opinione diversa come Claudio Napoleoni, Giorgio Lunghini e Michele Salvati. Il debito pubblico può avere accanto a sé il migliore degli aggettivi qualificativi ma è sempre un atto di responsabilità morale verso le prossime generazioni.
La riforma dell’articolo 81 della Costituzione, realizzata durante il suo governo, riassume il senso di molti suoi articoli in favore della disciplina fiscale.
Noi il deficit lo addolciamo chiamandolo flessibilità, scostamento, tesoretto, ma la sostanza non cambia. Prima o poi quei debiti qualcuno li pagherà
Nel ringraziare il professor Monti per la sua lunga collaborazione, che prosegue, un appunto glielo dobbiamo fare.
Inflessibile sugli scostamenti di bilancio, non lo è stato altrettanto sui tempi di consegna dei suoi articoli, arrivati spesso fuori tempo massimo. Einaudi era più puntuale.
Anche perché il direttore di allora, Luigi Albertini, multava i ritardatari. Io non mi sarei mai permesso. Mi fermo qui anche perché Monti è uno straordinario battutista. Una volta nel cedere la parola, durante un dibattito, a un ministro un po’ logorroico, di cui non farò il nome, disse con amabile e perfida gentilezza: “Sono ammessi anche interventi brevi”.








