Federico Fubini sul Corriere della Sera parla di ‘un’Europa poco bancaria’: “La zona euro – osserva l’editorialista – è la terza economia al mondo e la Germania, da sola, la quarta.
Però se si guarda alle banche non si direbbe.
Non compaiono istituti europei fra i primi dieci al mondo per valore di mercato.
Se poi si allarga alle prime venticinque anche lì dell’area euro neanche l’ombra.
Era inevitabile: fra l’avere banche e aziende più grandi, più produttive, più capaci e propense all’innovazione, oppure il mantenere feudi nazionali più limitati ma autonomi ed i governi europei hanno scelto da tempo il secondo.
Se però poi si restringe la classifica alle prime dieci banche dell’area dell’euro, la più grande della Germania è in ultima posizione: e non si tratta di Commerzbank, ma di Deutsche Bank.
E per carità, il mercato non ha sempre ragione.
Spesso si sbaglia, ma qualcosa starà pur cercando di dirci.
Ci dice che esiste una questione tedesca all’interno di una più generale questione europea.
Per restare all’industria del credito – scrive Fubini – assistiamo a una tardiva presa d’atto di quel che è accaduto nell’ultima dozzina di anni.
Perché mentre l’Italia, la Spagna o l’Irlanda dopo la crisi finanziaria hanno ristrutturato i loro sistemi bancari — volenti o nolenti — la Germania non è mai stata spinta a farlo dalle autorità europee.
Il risultato è che la seconda banca, Commerzbank, è nelle cure della mano pubblica nientemeno che da sedici anni (indisturbata dai regolatori) mentre la prima banca, Deutsche, è così debole che non può correrle in soccorso da mire «straniere».
Una lezione è che non conviene a nessuno in Europa considerarsi al di sopra delle regole.
E certo l’Italia oggi sarebbe più credibile nel chiedere che si lasci funzionare l’Unione bancaria nell’area euro, se a Roma si fosse ratificato il Meccanismo europeo di stabilità con la sua rete di sicurezza per l’industria del credito.
Ma i problemi della Germania, così emblematici di quelli della zona euro, vanno oltre le banche.
Da due anni il Paese non cresce e sembra di nuovo in recessione.
Quel che deve cambiare – conclude – è l’approccio, in senso europeo”.








