«Gli Stati Uniti innovano, la Cina copia, l’Unione Europea regolamenta»: questo – ricorda Irene Tinagli sulla Stampa – il mantra che da tempo viene ripetuto negli ambienti economici europei per lamentare quella che viene vista come una «ipertrofia» regolatoria e una minaccia per la nostra competitività.
L’intervento del vicepresidente dell’Abi Camillo Venesio, pubblicato martedì su questo giornale, descrive bene questo fenomeno.
Che la stratificazione normativa sia un problema è incontestabile, lo sappiamo bene noi italiani.
Capire come intervenire è altro discorso.
Ci ricordiamo bene quando il ministro Calderoli si fece immortalare con la fiamma ossidrica mentre dava fuoco ad una montagna di documenti.
Tanto potente il gesto, quanto irrisori i risultati.
Serve una riflessione su due aspetti.
Innanzitutto sulle cause di questo «eccesso regolatorio» europeo.
In secondo luogo, è necessario capire se e dove queste regole causano un deficit di competitività.
Altrimenti rischiamo di agire con interventi poco mirati che non centrano l’obiettivo.
Non tutti gli aspetti regolatori hanno impatto negativo sull’economia reale: in alcuni casi servono a proteggerla.
Il nodo della competitività europea risiede in una difficoltà strutturale a sviluppare e finanziare innovazione e investimenti su larga scala, a sua volta legata ad un mercato che è ancora troppo frammentato, troppo chiuso nei confini nazionali e poco «europeo», come evidenzia il rapporto di Enrico Letta.
Purtroppo l’Ue non ha ancora né un vero mercato unico della ricerca né dei capitali per poter finanziare imprese e innovazione, così come manca un bilancio veramente corposo, autonomo, in grado di sostenere investimenti e affrontare sfide come la transizione ecologica.
In assenza di solidi strumenti economici europei, l’unico strumento che resta in mano all’Ue per coordinare i comportamenti degli operatori sono i regolamenti.
 
								 
				 
								 
								 
								 
								








