Affrontare la pandemia da gestore ha significato confrontarsi pluriquotidianamente con l’incertezza e l’imprevedibilità e, se è vero che in sanità l’imprevisto fa parte degli elementi che si devono tenere presente nell’organizzazione e pianificazione delle attività, è altrettanto vero che, finora, non era mai capitato di cimentarsi con un “imprevisto” di queste proporzioni e intensità.
Il nostro sistema sanitario si è trovato ad affrontare la pandemia dopo anni di azioni di contenimento della spesa, spesso con incrementi di finanziamento non sufficienti a far fronte ai costi di produzione delle prestazioni e in particolare a sostenere il costo delle terapie innovative.
L’efficienza in sanità è stata vissuta come un valore, tuttavia oggi è evidente che un sistema fortemente orientato all’efficienza corre il rischio di mostrarsi più debole.
La pandemia da SARS-CoV-2 ha fatto crollare il mito dell’efficienza in sanità e la risposta del sistema ha retto sulla capacità di adattamento, sulla dinamica del cambiamento e sull’invenzione.
Ma la carta vincente, nella realtà bolognese è stata l’aver lavorato insieme fra le due Aziende (Policlinico di S.Orsola e USL), in maniera integrata e solidale: ogni sera alle 17 i professionisti delle due Aziende (territoriale e Ospedaliero-Universitaria) hanno messo in campo prontezza, collaborazione, sperimentazione e coraggio per affrontare un futuro che non si conosceva.
Abbiamo vissuto la più grande riconversione della storia dell’assistenza ospedaliera in tutto il Paese e in situazioni simili contano le relazioni basate sulla fiducia e una catena di comando non più fondata sulle gerarchie formali, ma sulle competenze, scoprendo un’inattesa riserva di risorse e di capacità.
Il primo obiettivo sarà pertanto preservare le relazioni di fiducia.
Non è ancora vinta la guerra, perché COVID-19 è e sarà ancora presente e la comunità dei professionisti percepisce le criticità che ci aspettano dopo la fase epidemica più acuta: in primo luogo riservare attenzione alla nuova patologia senza distoglierla dalle altre, per le quali finora le soluzioni adottate sono state provvisorie, come posticipare i ricoveri. Inoltre la convivenza con il virus obbliga a scelte drastiche in termini di standard alberghieri e richiede azioni di deaffollo delle strutture, il che purtroppo limita in modo significativo la recettività sia per i ricoveri, sia per le attività ambulatoriali, con riduzione delle capacità di erogare prestazioni sanitarie.
Da dove partire per il futuro della nostra sanità?
Questa esperienza sta slatentizzando completamente la necessità di rimettere al centro i principi fondanti il Servizio Sanitario Nazionale: un sistema sanitario universalistico, finanziato attraverso la fiscalità generale e con una capacità di intervento preventivo, diagnostico, terapeutico e riabilitativo, sia a livello territoriale, sia ospedaliero.
Certamente un decennio di austerità ha creato enormi difficoltà nel rispettare i principi fondanti del nostro SSN e, oggi, nel rendere appropriate le risposte del sistema alla nuova realtà epidemiologica sulla prevalenza delle cronicità, a cui si è aggiunta l’emergenza pandemica e le sue sequele.
Per avere una idea delle dimensioni del sottofinanziamento del Sistema Sanitario basta ricordare che spesa sanitaria pubblica nel 2017 è stata in Italia pari ad appena 2622 dollari pro capite, contro – a parità di potere d’acquisto – i 4068 dollari della Francia e i 4986 della Germania. Una contrazione sistematica negli ultimi vent’anni: un tasso di crescita annuo passato dal 7,1 % nel periodo 2001-2006 ad appena l’1% dal 2007 al 2015, durante il quale il contributo principale è arrivato dalla riduzione della spesa per la categoria dei redditi da lavoro dipendente: è facilmente intuibile su quali spalle abbia pesato lo sforzo per la sopravvivenza del SSN.
Se il finanziamento è la criticità più pressante, la più importante è cosa finanziare per rivitalizzare il sistema.
Criticità severe rese evidenti dalla pandemia e non risolvibili con il solo finanziamento, sono state il sottoutilizzo della medicina di base (confinata ad un ruolo marginale), lo sviluppo stentato dei servizi sanitari ad elevata integrazione sociale, purtroppo conseguenza della frammentazione che ha generato difficili relazioni tra Comuni e Aziende Sanitarie, una sanità pubblica ancora dotata di antichi strumenti di controllo delle epidemie perché orientata prevalentemente alle condotte individuali e meno al rischio di popolazione, con l’incapacità di studiare le concatenazioni delle reti sociali di piccole e grandi comunità, insieme alla mancanza di strumenti per ricostruire in modo prospettico lo sviluppo dei cluster infettivi, a cui si aggiunge l’enfasi eccessiva sui grandi ospedali a discapito di una sanità di prossimità.
Tre sono i nodi fondamentali che hanno caratterizzato le politiche sanitarie del “dopo riforma” e che, probabilmente, richiedono un profondo ripensamento:
- la necessità di ripensare il governo multilivello del Sistema sanitario: la legge 833/78 era cristallina nell’attribuire allo Stato le competenze sulle epidemie, mentre durante la pandemia COVID-19 abbiamo assistito a un dispiegamento di strategie di separazione e ad azioni di accaparramento di beni sanitari da parte delle Regioni, che hanno generato tensioni tra le stesse e il governo nazionale. La tutela della salute è una funzione complessa e richiede un governo multilivello, in quanto si estrinseca a livelli contemporaneamente locali (si pensi alla medicina di prossimità), regionali (per esempio le reti per le patologie complesse ed i trattamenti ad alto contenuto tecnologico per cui si configurano centri Hub), sovraregionali (la rete degli IRCCS nazionale) e mondiali (OMS e governo delle pandemie). La modifica del titolo V della Costituzione del 2001 ha ridefinito le competenze tra i livelli di governo, attribuendo alle Regioni una competenza concorrente sull’organizzazione ed il funzionamento dei cosiddetti Sistemi Sanitari Regionali e hanno fatto della sanità regionale un terreno di connotazione identitaria nei confronti del governo centrale. La sconfitta della ricentralizzazione al Referendum Costituzionale ha poi aperto una nuova stagione al regionalismo che, allo stato attuale, in sanità è un nodo da sciogliere se si vuole recuperare il significato di un Servizio Sanitario Nazionale.
- Ampiezza, profondità e costi dell’universalismo, vale a dire selettività o condizionalità della globalità della copertura e della gratuità delle prestazioni sanitarie. Negli anni il taglio alla spesa pubblica ha gradualmente aumentato la compartecipazione al costo delle prestazioni da parte dei cittadini, con un incremento dell’uscita verso produttori privati o abbandono delle cure, con stime che oscillano dai 12,2 milioni di persone secondo l’indagine Censis a 4 milioni di persone comunicate dall’ISTAT in audizione alla Camera sulla legge di bilancio 2010, dando spazio ai tradizionali argomenti a favore della necessità di sviluppare un secondo e terzo pilastro per la popolazione a più alto reddito. Si tratta di circa 11 milioni di assicurati, di cui 8 milioni attraverso fondi di categoria ovvero polizze di welfare contrattuale/aziendale negoziati con imprese datoriali che possono trasferire l’onere alla collettività secondo il classico schema di sconti e agevolazioni fiscali.
- Il governo degli effetti dell’aziendalizzazione: Aziende nate per dare una forma giuridica chiara alle Unità Sanitarie Locali non ben definite dalla L. 833/78, hanno portato a scorporare produttori e acquirenti, travalicando la natura giuridico-gestionale del problema e trasformandolo in strutturale del sistema. In tutte le Regioni si è assistito al fenomeno della fusione delle Aziende Sanitarie negli ultimi anni, ma il gigantismo delle Aziende potrebbe diventare solo una scorciatoia rispetto ai più lunghi e difficili processi di vera integrazione. Non si tratta di realizzare semplici riduzioni del numero delle Direzioni Generali, bensì di affrontare l’integrazione tra i servizi sanitari gestiti dalle Aziende e i servizi sociali a governo comunale: non dovrebbero avere né dimensioni troppo vaste per garantire la prossimità, né troppo piccole da far perdere l’opportunità di significative economie di scopo nei servizi di supporto, come quelli amministrativi oltre che sanitari.
La scelta per Bologna, per esempio, contenuta nel documento di programmazione elaborato da un nucleo di esperti nominati dalle Istituzioni coinvolte nei livelli decisionali (Regione Emilia-Romagna. Conferenza Sociale e Sanitaria Territoriale, di concerto con l’Università), contempla una linea d’integrazione funzionale basata, fondamentalmente, sul governo dei processi da parte dei professionisti, fino ad arrivare a cessioni di rami di attività tra Aziende che, in tale maniera, si specializzano. È una scelta che punta all’obiettivo di garantire continuità tra i livelli di cura per fornire, al tempo stesso, prossimità e specializzazione, le due dimensioni che dovranno convivere nel sistema sperimentando nuovi modelli in sanità.
Per dimensioni (un milione di abitanti circa), l’area metropolitana rappresenta l’unità epidemiologica perfetta per lo studio di prevalenza e incidenza delle patologie; è sede di un’Università antica e prestigiosa che, già 150 anni fa, sottoscrisse il primo accordo per garantire l’integrazione tra assistenza, ricerca, didattica e formazione.
Del resto la dinamica pandemica ha reso evidente quanto sia fondamentale arricchire il sistema con lo studio delle forme e delle modalità di aggregazione dei gruppi di popolazione.
Non c’è l’esigenza di cancellare i confini tra le Aziende, ma solo di far fluire le competenze e i servizi; in futuro sarà d’importanza strategica farlo anche attraverso le nuove tecnologie, rendendo i confini politici e funzionali morbidi e permeabili, ovviamente con un coordinamento del governo delle Aziende attraverso un luogo di condivisione organizzativo-gestionale, con l’obiettivo di recuperare la dimensione comunitaria della prevenzione collettiva, di rafforzare l’assistenza territoriale con il ruolo centrale della medicina di base, rinsaldando e aggiornando la relazione con i medici di medicina generale e il ruolo delle Case della salute per la medicina di prossimità.
La capacità di creare integrazione passerà attraverso l’espansione della relazione per garantire lo sviluppo della ricerca sui temi propri dei livelli di assistenza prevalentemente territoriali e di formare le nuove generazioni di professionisti della sanità attraverso l’estensione della didattica e della formazione agli aspetti e alle dinamiche territoriali, non fermandosi all’ospedale.
La sostenibilità del modello del sistema universalistico dipende, in misura almeno pari alla sostenibilità economica, anche dal grado di fiducia che sapremo mantenere nelle relazioni tra le sue comunità professionali con le comunità dei suoi destinatari: creare sistemi competitivi equivarrebbe a minare tali relazioni di fiducia e non deve appartenere al futuro.








