In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto, con il caso limite delle pensioni da 10mila euro lordi al mese che hanno visto svanire quasi 180mila euro, l’equivalente di un anno intero di assegno netto.
Questo l’allarme lanciato da uno studio presentato da Cida e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, che accende un faro sul tema della mancata rivalutazione delle pensioni.
A soffrire l’effetto delle mancate indicizzazioni degli assegni all’inflazione sono soprattutto i pensionati del ceto medio, circa 1,8 milioni di persone con redditi dai 35mila euro in su: un segmento pari a poco meno del 14% del totale, che garantisce però il 46,33% dell’Irpef dell’intera categoria.
“Eppure sono proprio loro i più colpiti”, sottolinea il presidente di Cida Stefano Cuzzilla, per il quale “le pensioni non sono un privilegio, sono salario differito, il frutto di una vita di lavoro e tasse pagate”.
I pensionati, spiega Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, “sono quelli meno possibilità di difendersi dall’inflazione”, dato che il mantenimento del loro potere d’acquisto è affidato “quasi esclusivamente ai meccanismi di indicizzazione”.
Proprio per questo, chiosa Brambilla, “sarebbe innanzitutto importante avere regole stabili ed eque nel tempo”.
E proprio sul tema delle pensioni arriva l’attacco della Cgil al governo, ribattendo all’ipotesi dell’esecutivo – ribadita dal sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon – di discutere in manovra il Trattamento di Fine Rapporto per consentire l’uscita anticipata a 64 anni.
L’esecutivo “ha fatto crescere di oltre 500 euro l’importo soglia per il pensionamento anticipato nel sistema contributivo, rendendolo un miraggio”, afferma la segretaria confederale del sindacato Lara Ghiglione, secondo la quale il governo “prima crea il problema, e poi prova a spacciare per soluzione un rimedio inefficace”.
A rendere l’ipotesi del governo impossibile, aggiunge Ghiglione, è il duplice nodo “della precarietà e dei salari”, dato che “fissare una soglia così alta significa rendere impossibile l’uscita a 64 anni alla stragrande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori italiani”.
L’importo soglia, sottolinea Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, è infatti “cresciuto a dismisura: nel 2025 la soglia è di 1.616,07 euro (+306,65 euro rispetto al 2022, +23%) e nel 2030 arriverà a 1.811,78 euro (+502,36 euro rispetto al 2022, +38%)”.
Solo questo incremento, spiega Cigna, “richiede un montante contributivo aggiuntivo di oltre 128mila euro: un traguardo irraggiungibile per chi ha carriere discontinue e salari medi o bassi”.
Di conseguenza, “anche l’uso del Tfr da sommare al montante contributivo maturato di fronte a questi numeri sarebbe inefficace”.








