“Qualunque pace ha bisogno di garanzie. È una verità semplice, ma essenziale per provare a dare un senso al caos geopolitico che stiamo vivendo – a cominciare da Gaza”.
Così Gabriele Segre sulla Stampa prova a guardare cosa c’è dietro la tregua a Gaza:
“Nessun accordo – scrive – può durare se non poggia su impegni chiari e garanzie concrete, capaci di tutelare gli interessi vitali di ogni parte e di riconoscerne la dignità.
È su questo principio che si misurerà la reale efficacia del piano di Donald Trump per la fine della guerra: un’iniziativa nata dall’urgenza di fermare la violenza che da mesi devasta la Striscia, ma che ora è chiamata a misurarsi sul principio che nessuna stabilità è possibile senza sicurezza comune e cooperazione tra tutti, a cominciare da israeliani e palestinesi.
È un accordo di gestione, non di riconciliazione.
Ma, proprio per questo, è forse l’unico punto di partenza possibile: un tentativo di imporre un minimo di ordine dove da troppo tempo si consumano solo violenza e sofferenza.
I suoi limiti sono chiari, ma in una fase storica segnata da sfiducia e paura, anche un’intesa imperfetta può creare le condizioni per un percorso diverso.
Ogni trattato di pace, in fondo, non conclude la guerra: la sospende.
Non scioglie le contraddizioni, ma ne riduce la portata, creando uno spazio in cui la vita possa ricominciare a prendere forma.
Il suo compito è interrompere la spirale della violenza, restituire tempo e possibilità all’incontro, permettere che la paura si ritiri quel tanto che basta perché una forma di coesistenza torni a essere pensabile.
Perché la pace non nasce da una firma su un documento, ma dal tempo: dal lento riformarsi delle relazioni, dall’abitudine fragile, dolorosa, preziosa di condividere di nuovo la vita.
La speranza di convivenza tra israeliani e palestinesi non si è spenta per un fallimento diplomatico, ma per la lenta e inesorabile separazione delle comunità.
Se il nuovo assetto regionale riuscirà nel suo intento, non darà vita da solo a quella convivenza.
Potrà però offrire le condizioni perché, col tempo, le persone possano incontrarsi di nuovo, dialogare, comprendere l’esperienza, il dolore e le ragioni dell’altro, senza rinunciare alle proprie, ma imparando a riconoscerle reciprocamente.
È da lì che la pace inizia il suo cammino: nel piccolo spazio di una relazione umana, nella quotidianità condivisa.
Le garanzie dei trattati – conclude – servono a rendere quel ritorno non certo, ma almeno possibile”.








