È certo una buona notizia che il potere di acquisto delle famiglie italiane sia cresciuto dello 0,9% nel primo trimestre del 2025, commenta sulla Stampa Stefano Lepri.
Ma ci vorrebbe ben di più per correggere l’impressione di impoverimento che, come dal sondaggio di cui questo giornale ha parlato ieri l’altro, è diffusa.
Siamo un Paese il cui tenore di vita, all’incirca stazionario dall’inizio del secolo, era nettamente diminuito nel 2022 e 2023, secondo i dati che lo stesso Istat ha diffuso la settimana scorsa.
In parallelo, la pressione fiscale è salita di mezzo punto.
I dati trimestrali sul gettito tributario non sono molto significativi; ma ce n’è abbastanza per concludere che la promessa di «meno tasse» con cui la destra era andata al governo non è stata realizzata.
Anche qui, la nuova maggioranza che ambiva a cambiare tutto, nell’economia ha cambiato poco o nulla.
Né sembra che ci siano idee chiare su che cosa faremo dopo che il sostegno dei fondi europei del Pnrr si sarà esaurito.
Al momento, le nostre imprese hanno i conti in ordine, pur se in capo a due anni di successivi lievi arretramenti; il lavoro continua a non mancare.
Ma del modesto 0,6% di crescita del prodotto in vista per quest’anno oltre la metà viene dagli investimenti del Pnrr.
Sempre dal Pnrr verrà un contributo consistente anche nel 2026; poi potrà esserci un contraccolpo.
Uno studio recentissimo della banca multinazionale Barclays ipotizza che in un quadro europeo già deludente la crescita media dell’economia italiana possa del tutto arrestarsi nell’arco di un decennio.
Guardare nel futuro è particolarmente difficile oggi, quando con alterni capricci il presidente degli Stati Uniti tenta di scaricare sui Paesi alleati il peso di misure che secondo lui verrebbero incontro al malcontento dell’elettorato americano.
Anche se il dazio Usa si fermerà al 10%, il nostro export sarà danneggiato.
Solo fattore positivo per l’Italia potrà essere che la Germania spenderà di più, speriamo con incisività.








