Di una «vana rincorsa fra prezzi e salari», come in Italia l’avemmo negli anni ’70, non c’è per ora traccia alcuna, come scrive Stefano Lepri sulla Stampa.
Se Ignazio Visco ne parla è perché l’inflazione più si tarda a combatterla più si soffre per liberarsene, e il mestiere dei governatori delle banche centrali è ricordarci questo.
Con la «scala mobile» modello 1975, se il costo della vita saliva del 10% i salari venivano automaticamente alzati di poco meno, dopo i prezzi salivano di altrettanto, scattava un nuovo aumento dei salari, e non si finiva più.
Non può più accadere nel mondo di oggi, spiega Lepri. Il potere d’acquisto che i lavoratori dipendenti hanno perduto può essere recuperato solo in parte.
Lo Stato non può indebitarsi ancora. Ignazio Visco indica la via di aumenti «una tantum» delle paghe, invece che permanenti, per non imporre ai datori di lavoro oneri duraturi.
Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha detto che aumentare i salari è «una delle condizioni per evitare la recessione».
Ma non c’è tanto spazio per aumentarli. In gran parte, i prezzi maggiorati servono agli imprenditori italiani a pagare di più l’energia a Putin.
Secondo una tabella, fonte Ocse, negli ultimi 30 anni i salari italiani sono rimasti fermi, mentre quelli francesi e tedeschi salivano di oltre il 30%.
Visco ha tentato di spiegarcene il perché: tutto il Paese è rimasto indietro.
La produttività del lavoro del settore privato dal 1995 ad oggi è salita di poco più del 10%, nella media dell’area euro del 35%, in Germania di oltre il 40%.
Non ci sono ricchezze nascoste da spartire; infatti, avverte la Banca d’Italia, nel primo trimestre del 2022 i profitti sono diminuiti in quota sul valore aggiunto nazionale.
Da un quarto di secolo il nostro Paese ristagna, conclude Lepri: invece di reagire innovando e investendo, le imprese perlopiù hanno cercato di risparmiare sul costo del lavoro.
Così ora alle imprese tedesche tornano i conti pagando gli ingegneri il doppio di quanto li paghiamo noi.








