Sono settimane e mesi decisivi per l’Italia, alle prese con la bonanza del Recovery Fund. Per la prima volta da trent’anni, invece di tagliare, possiamo spendere. Come e dove impiegare questi soldi, sembrerebbero le domande cruciali.
E, invece, quella decisiva è: siamo pronti?
Prima ancora di scendere in campo e vincere la partita, dobbiamo sapere se siamo – sì o no – in grado di giocare. E sì non è la risposta scontata.
Un osservatore appassionato, ma disincantato, come Ignazio Visco, il governatore della Banca d’Italia, passando in rassegna le ricette che circolano con abbondanza in questi giorni – burocrazia, giustizia, fisco – , ha preso di petto le indicazioni oggi più gettonate.
Da questa crisi, dice, infatti, Visco, non usciamo “né con riforme che alzino il livello dei servizi pubblici, né accrescendo il livello degli investimenti pubblici, migliorando la giustizia civile, riducendo i fardelli burocratici e amministrativi che ostacolano l’investimento privato o riducendo il peso dell’evasione fiscale, della corruzione, della criminalità”.
Tutte queste cose sono importanti, “ma per un paese avanzato come l’Italia non sono sufficienti”.
Non è un caso estremo di “benaltrismo”, messo sul piatto per aggirare scelte difficili, perché l’indicazione di Visco è precisa: il problema di fondo italiano è – non da oggi – il modello di sviluppo.
Quello a cui siamo abbarbicati dai tempi del “miracolo” degli anni ’60 è completamente svuotato.
“Quando un Paese si accosta alla frontiera tecnologica, reddito e salari non consentono più una strategia di sviluppo, basata sulla competitività di costi e prezzi”.
Al contrario, alla frontiera tecnologica la competizione è fatta di innovazione e competenza. Visco non lo dice, ma, se le cose stanno così, i soldi meglio spesi nei prossimi mesi saranno quelli di cui vedremo i frutti solo a distanza di anni, perché i miglioramenti su scuola e ricerca si manifestano soltanto sulla lunga distanza.
Politicamente, è la scelta più difficile.
D’altra parte, se vogliamo restare sulla frontiera tecnologica e non scivolare indietro, i dati non lasciano scampo.
Per ricerca e sviluppo, l’Italia spende solo l’1,4 per cento del Pil, contro il 2,4 per cento della media Ocse (per non parlare dei paesi che, la frontiera tecnologica, la spostano loro in avanti). Lo Stato può metterci una pezza, con i soldi del Recovery Fund, ma la verità è che il buco è quasi tutto dalla parte dell’investimento dei privati in R&D: 0,9 per cento contro l’1,7 per cento della media dei paesi industrializzati, riuniti nell’Ocse.
E, infatti, nelle aziende italiane, i ricercatori sono 5,5 ogni mille dipendenti, contro un tasso medio di 9 su mille nei paesi industrializzati.
E’ lo stesso bacino a cui attingere che è ridotto. L’Italia destina solo lo 0,9 per cento del Pil nazionale all’università, una delle quote più basse di tutta l’Ocse, meno di Ungheria e Portogallo.
L’inevitabile risultato è una carestia di laureati. Solo il 28 per cento dei giovani fra i 25 e i 34 anni, in Italia, ha in tasca una laurea, contro il 44 per cento della media dei paesi industrializzati: siamo al penultimo posto della classifica Ocse.
Il punto, però, è che pompare soldi nell’università è solo parzialmente una soluzione vincente.
L’altra metà del problema, infatti, è dall’altro lato del tavolo: come per la R&D, buona parte della zavorra è nell’impresa privata.
La spia è il gap di retribuzione fra laureati e non.
Con la mancanza di laureati, testimoniata dalle statistiche Ocse, le imprese dovrebbero disputarseli con stipendi da favola. Paradossalmente, è vero il contrario. Il vantaggio retributivo di un laureato, rispetto ad un diplomato, in Italia, è fra i più bassi. E risulta più alto per i giovani freschi di laurea, nel confronto con i coetanei diplomati, rispetto a chi è già più avanti nella carriera, a conferma del fatto che il ruolo assoluto del titolo di studio nel determinare la busta paga è modesto, al contrario di quanto avviene all’estero.
Probabilmente, la spiegazione, per restare nel quadro disegnato da Visco, è che l’Italia ha raggiunto livelli di reddito, comparabili con i paesi più avanzati, ma solo una parte del suo sistema economico è in effetti arrivato alla frontiera tecnologica.
I milioni di piccole imprese, che costituiscono il grosso dell’economia italiana, spesso limitate dall’incrociarsi di ambizioni di impresa e esigenze della proprietà familiare, è rimasto indietro e si muove, ancora, all’interno del vecchio modello di sviluppo.
Il problema è che queste imprese impigrite si specchiano in una forza lavoro anch’essa superata dai tempi.
Spezzare questo circolo vizioso è una operazione titanica.
Il basso numero di laureati è, infatti, solo la punta dell’iceberg dei ritardi italiani. I riscontri dell’Ocse sulla capacità degli italiani di 15 anni di leggere, far di conto, seguire ragionamenti scientifici dicono che siamo sotto la media dei paesi ricchi.
E la valutazione si può estendere a tutta la popolazione. In qualsiasi classe di età, giovani o vecchi, il 70 per cento degli italiani risulta incapace di comprendere adeguatamente un testo lungo e articolato o un ragionamento matematico relativamente complesso.
Normalmente, negli altri paesi Ocse, queste quote arrivano al 50 per cento.
E’ l’ennesima conferma del dualismo italiano: a trascinare verso il basso le medie italiane sono i risultati delle scuole del Sud e delle Isole.
A Nord, i risultati sono sopra la media Ocse. Non basterà il Recovery Fund a superare questo dualismo. E, in ogni caso, bisogna avere la freddezza di tener d’occhio il calendario. Perché i quindicenni spaesati di oggi si trasformino in trentenni competenti, come minimo occorrono quindici anni. Altro che Recovery Fund.








