Il governo fa uno sforzo in più per il Mezzogiorno, con un taglio secco del costo del lavoro: 30 per cento in meno sui contributi per ogni busta paga. Nata come misura temporanea, destinata a scadere a fine anno, si avvia a diventare strutturale: si sta negoziando con Bruxelles una estensione fino al 2029, scalando progressivamente verso il basso, a partire dal 2025. L’obiettivo, dice il ministro Provenzano, è moltiplicare l’effetto occupazione, incentivando gli investimenti privati, già nel 2021 e combattere il lavoro nero.
A 5 miliardi di euro l’anno, è uno sforzo massiccio. Che i dati, guardando i conti elaborati dalla Svimez, giustificano: quest’anno il Sud perde 380 mila posti di lavoro, scendendo sotto i 6 milioni di lavoratori, con una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, a livelli sempre più lontani dal resto del paese. In percentuale, del resto, il Mezzogiorno ha perso il 6 per cento dei suoi posti di lavoro, mentre il Centro Nord solo il 3,5 per cento. La crisi, insomma, ancora una volta, ha morso di più nel Sud e si allenterà di meno: l’anno prossimo è previsto un rimbalzo dell’occupazione, a livello nazionale, del 2,2 per cento, ma, nel Mezzogiorno, solo dell’1,3 per cento.
Tuttavia, siamo di fronte, una volta di più, ad una strategia di sussidio, che può tamponare la crisi, frenando i licenziamenti, ma non invertirla. Per farlo occorrono gli investimenti e niente garantisce che uno sconto sul costo del lavoro possa compensare i sovra costi determinati da connessioni precarie, trasporti inefficienti, tribunali civili che esauriscono una causa in un tempo superiore del 40 per cento a quanto avviene nel resto del paese, difficoltà a reperire il personale giusto. Ovvero, gran parte delle cose che determinano l’efficienza produttiva di un investimento.
Tutti i problemi dell’economia italiana, al Sud, sembrano moltiplicarsi, gonfiarsi. Si pagano ritardi storici. La quota di ragazzi italiani di 15 anni capaci di comprendere un testo, far di conto, seguire ragionamenti scientifici è sotto la media dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati. Ma le medie, come sempre, ingannano: nel Nord, siamo sopra la media Ocse, al Centro allo stesso livello. Al Sud, invece, si arriva appena a metà e, nelle isole, ad un terzo. Dietro, ci sono nodi strutturali. Ad esempio, l’84 per cento dei bambini delle elementari non fa il tempo pieno al Sud, mentre, al Nord, solo la metà. Una zavorra che si riflette anche sulla difficoltà di mobilitare il lavoro femminile.
Ecco perché, al Sud, c’è soprattutto un problema di investimenti. Anzi due: la loro quantità e la loro qualità.
Negli ultimi anni abbiamo registrato una caduta degli investimenti pubblici al Sud. Fra il 2008 e il 2018, in Italia, in generale, gli investimenti pubblici si sono ridotti di circa un terzo, da 57 a 34 miliardi di euro. Ma, nel Mezzogiorno, si sono dimezzati: da 22 a 10 miliardi di euro. Infatti, il governo sta pensando ad una sorta di corsia privilegiata. Non tanto perché un terzo circa degli aiuti del Recovery Fund europeo saranno destinati al Mezzogiorno, una divisione abbastanza ragionieristica delle risorse disponibili fra le tre macroaeree del paese. Quanto perché questi 25 miliardi di euro si aggiungeranno ai 52 miliardi che l’Europa rende disponibili per il Mezzogiorno nel quadro degli ordinari Fondi strutturali del prossimo bilancio comunitario e agli altri 60 miliardi circa degli, ugualmente ordinari, Fondi di coesione.
Insomma, una valanga di 137 miliardi di euro da spendere da qui al 2027. Ed ecco il primo problema: spendere. Nel Mezzogiorno, la capacità di spendere è più bassa che nel resto del paese. Delle 610 opere pubbliche ancora incompiute, 436 sono nel Sud e nelle isole. I fondi strutturali esistevano nel bilancio Ue anche negli anni scorsi, ma, negli anni 2014-2020, siamo riusciti a spenderne, fino all’agosto scorso, solo poco più di un terzo. I dati sulla spesa effettiva dei Fondi di coesione, previsti nello stesso esercizio 2014-2020, sono anche più umilianti: 5,2 per cento.
I numeri annunciati sulla quantità di investimenti nel Mezzogiorno sono, insomma, tutti da verificare. Ma c’è anche da capire di quali investimenti si tratta. L’effettiva efficienza produttiva degli investimenti è, infatti, il grande buco nero della politica per il Sud. L’Osservatorio di Carlo Cottarelli ha calcolato, in questi giorni, che, se l’efficienza produttiva degli investimenti realizzati nel Sud, fra gli anni Settanta e gli anni Novanta, fosse stata pari a quella registrata negli investimenti contemporanei al Nord, il gap fra i due tronconi del paese si sarebbe chiuso in venti anni.
La storia della politica meridionalistica, in altre parole, ci dice che la qualità degli investimenti conta anche più della loro quantità. Per riequilibrare il paese bisogna anzitutto riequilibrarne le strutture istituzionali e civili. I soldi servono anzitutto lì. E non, ad esempio, nell’eterno miraggio del Ponte sullo Stretto, sul quale, del resto, la Commissione di Bruxelles avrebbe già storto il naso, anche perché, per fortuna, i tempi di realizzazione del ponte sono incompatibili con la finestra del Recovery Fund, dove l’erogazione di fondi si chiuderà nel 2027.








