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La ripartenza passa dalla transizione energetica. Servono meno vincoli e più investimenti privati

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Se guardiamo agli ultimi mesi, i mercati energetici sono stati colpiti da ben due crisi. La prima, la più ovvia, dovuta al crollo della domanda, a seguito del lock-down e del blocco dei trasporti (si pensi al sostanziale stop dell’aviazione civile). Questa crisi si è aggiunta alla guerra dei prezzi del greggio che si è scatenata fra Arabia Saudita e Russia all’inizio dell’anno.

La combinazione di questi eventi ha portato a un crollo dei prezzi a livelli e velocità mai viste. Al crollo dei prezzi si è aggiunta una disaffezione degli investitori verso il settore petrolifero. Pensiamo alla lettera di Larry D. Fink, CEO di Blackrock, agli investitori seguita a stretto giro da un’analoga presa di posizione della BEI, che indicano un progressivo phase-out di investimenti e finanziamenti nel settore fossile.

Questo non solo perché la redditività del settore è scesa considerevolmente, ma anche perché il petrolio e il gas hanno dimostrato, più che mai, di essere soggetti a forti influenze e perturbazioni di origine politica. Il 60% della produzione mondiale di petrolio arriva da paesi in cui l’export di prodotti petroliferi rappresenta il 50% dell’export complessivo.

Non solo, anche la transizione energetica getta un’ombra sulle fonti fossili. Stiamo assistendo a quello che viene definito un “darwinismo petrolifero”: le aziende più deboli e con costi più alti di produzione rischiano di sparire – si calcola che se l’attuale quadro di crisi dovesse protrarsi potrebbero fallire il 70% delle aziende che producono gas non convenzionale negli USA – mentre le Oil Major sopravvivranno, ma a prezzo di una più bassa redditività.

Anche in virtù di una situazione attuale così poco favorevole, la transizione energetica, caratterizzata da decarbonizzazione, decentralizzazione, digitalizzazione, sta trovando nuovo slancio e nuovi sponsor.

La crisi sta accelerando la transizione energetica principalmente per tre ragioni. Innanzitutto, c’è una motivazione politica. In questo momento esiste un forte supporto politico alla decarbonizzazione. La necessità di un Green Deal è stata bandiera della Presidentessa della Commissione Europea von der Leyen, ribadita anche in queste ultime settimane come uno dei pilastri su cui dovrà poggiare il rilancio della nostra economia europea.

La seconda ragione ha una natura economica: sulla gran parte della superficie terrestre la produzione da energie rinnovabili ormai risulta la più economica e, come noto, “money goes the easy way”. In questo momento, se pensiamo al successo di iniziative come i green bond, i finanziamenti collegati a indici di sostenibilità o, di converso, alla discontinuità dei finanziamenti alle fonti fossili, risulta evidente un grande flusso di capitale sarà destinato nelle rinnovabili, che competono possono ormai competere ad armi pari con le fonti fossili (cd. market parity).

Un’ulteriore spinta verso la transizione energetica ha radici sociologiche, considerata l’euritmia delle fonti rinnovabili con i paradigmi prevalenti in questo periodo. Siamo passati da un mondo dell’efficienza a un mondo della resilienza e le rinnovabili sono estremamente resilienti, perché non dipendono, ad esempio, da decisioni politiche o oligopolistiche di chi le possiede. Un secondo paradigma è quello del passaggio dalla globalizzazione all’autosufficienza e le rinnovabili ci consentono una produzione, per così dire, autarchica.

Il terzo paradigma è quello di una generalizzata risk aversion e desiderio di sicurezza che sono qualità intrinseche della produzione rinnovabile. Un’ultima ragione che spinge verso la sostenibilità: la crisi sanitaria ha allargato differenze sociali, cultuali e politiche, creando nuove fratture. In un mondo di grandi divisioni, la decarbonizzazione è una delle poche categorie che mette d’accordo (quasi) tutti.

Dal punto di vista economico, il fotovoltaico può certamente costituire una risorsa per il futuro del nostro Paese. La realizzazione di impianti “utility scale” nelle zone più irraggiate, magari non nel brevissimo, ma già nel medio periodo potrà dare grandi soddisfazioni agli investitori. I limiti allo sviluppo sono da individuare ormai solo sul piano regolatorio: purtroppo ad oggi la realizzazione di grandi impianti fotovoltaici funzionali al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo è osteggiata da alcune autorità locali e in particolare, dalle Sovraintendenze dei beni culturali.

E’ auspicabile che in un momento in cui l’economia italiana ha particolare bisogno di investimenti privati, questa difficoltà venga, infine, superata.

Anche l’efficienza energetica e i benefici fiscali ad essa legati possono rappresentare un’opportunità interessante per gli operatori e gli investitori. In termini di efficienza energetica, l’Italia è, già oggi, uno dei Paesi più avanzati al mondo. Tuttavia, la strada è ancora lunga: basti pensare alla necessità di migliorare radicalmente la performance energetica dell’edilizia pubblica. Anche in questo caso è possibile applicare prassi internazionali consolidate (si pensi ai cd.  “energy performance contract”) che consentono interventi di efficientamento energetico totalmente finanziati da investimenti privati.

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