Due anni di governo in Italia sono già quasi un record che ti fa entrare nella top ten dei più longevi, vista la durata standard degli esecutivi nel nostro paese.
E questo già definisce la storica difficoltà dell’Italia a governare ed essere governata.
Quello di Giorgia Meloni raggiunge questo obiettivo – sarà tale il 22 ottobre – con risultati confortanti dal punto di vista della Borsa, molto tonica nonostante due guerre in corso, dello spread in discesa e della riduzione della disoccupazione.
Piazza Affari sta dando soddisfazioni ai nuovi padroni pro tempore del vapore: al 16 ottobre 2024 il listino di Milano ha registrato dallo scoppio del Covid un +66%, dalla guerra in Ucraina è cresciuto del 33% e dall’attacco di Hamas è in rialzo del 24%.
Gli affari in finanza vanno bene ma forse Roma dovrebbe occuparsi di più di quel che accade nella regione più ricca d’Europa e nella piazza finanziaria ora consorziata in Euronext.
Dai tempi della Brexit il capoluogo lombardo potrebbe diventare la nuova Londra, ma nessuno ci mette davvero la testa, a parte i lodevoli tentativi di rilanciare il bonus Ipo e il fondo Cdp per avvicinare il risparmio alle quotazioni.
Meno bene sta andando per quanto riguarda la finanza pubblica ma lì ci vorrebbe un governo apposito che tagli il debito, valorizzi il patrimonio immobiliare, riduca le spese inutili.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che pure ha varato un’interessante ricognizione su tutti gli immobili, compressi quelli passati agli enti locali, la cui gestione risulta un po’ oscura a suo dire, si è dovuto dannare l’anima per trovare dieci miliardi di euro mancanti nella legge di bilancio da trenta complessivi.
Tra caccia ai furbetti della casa con il bonus (che non hanno notificato le migliorie apportate ai loro immobili) e la necessità di chiedere un contributo a banche e assicurazioni, rinnovando il taglio del cuneo fiscale come richiesto dal presidente di Confindustria Emanuele Orsini, alla fine il titolare del Mef ha trovato un punto di equilibrio con una manovra alla Giulio Tremonti, che anticipa tasse da detrarre (nel caso delle banche) e imposte di bollo da pagare a fine polizza (nel caso delle assicurazioni) senza penalizzare le fasce deboli ma solo chi ha.
Probabilmente, con oneri per interessi annuali che toccano i 100 miliardi e sono superiori a quanto spendiamo per tutta l’istruzione, non si poteva fare di meglio, visto che il nuovo Patto di Stabilità è tutto tranne che nuovo e impone una riduzione di deficit da 12 miliardi l’anno.
Come la guerra alla Russia di Putin, che pur sempre qualche problema lo può creare oltre all’aumento dei prezzi, rimuoviamo anche il ritorno del cieco rigore in Europa, causa di scarsa crescita e alla base del ritorno di pericolosi nazionalismi.
Se si alza però un attimo la testa dalle vicende interne e da crisi di sistema devastanti come quelle di Stellantis ed Ilva, c’è un elemento che sicuramente rende l’operato di Meloni interessante, nonostante le acque perennemente agitate nella maggioranza e le clamorose azioni di dossieraggio: è il suo movimentismo con i big di Wall Street. Un dato da approfondire.
A palazzo Chigi sono già sfilati Larry Fink, il boss di Blackrock che ha partecipazioni in ben 40 società quotate a Piazza Affari, Bill Gates, l’inventore di Microsoft, seguito dal suo vice Brad Smith.
Fuori dalle mura amiche Meloni ha poi incontrato Elon Musk, che con le sue Tesla e le sue scoppiettanti iniziative smania per investire in Italia (era già stato ospite d’onore alla festa di Fratelli d’Italia Atreju nel 2023), Sam Altman, il genio dell’Intelligenza Artificiale e di OpenAi, il ceo di Google-Alphabet Sundar Pichai e quello di Motorola Greg Brown.
Un vero tour dell’Italian Valley, quello messo in moto dal capo del governo, come ha spiegato Andrea Deugeni su Milano Finanza del 12 ottobre, che ha due spiegazioni, oltre a quella evidente di cercare nuovi acquirenti per un debito pubblico arrivato a quota 3.000 miliardi di dollari.
La prima è quella di accreditarsi con la finanza che conta a Wall Street e nella Silicon Valley come partner affidabile e stabile, pronto ad agevolare investimenti americani nel nostro paese, come avvenuto per Kkr nella rete di Tim, si auspica senza svendere nulla.
La seconda è legata alla necessità della leader di Fratelli d’Italia di costruirsi un rapporto stabile con chi avrà saldi i cordoni della finanza americana chiunque vinca il prossimo 5 novembre tra Donald Trump e Hamala Harris. Mossa intelligente e rischiosa al tempo stesso.
Si tratta di un posizionamento importante che dovrà però essere coltivato nei fatti e oltre le photo opportunity.
Di certo, ricordando la celebre battuta di Guido Rossi ai tempi del governo D’Alema e dell’opa sulla Telecom, si può dire che nella merchant bank di Palazzo Chigi si parla inglese e lo si usa.
Bisogna capire se questo feeling darà frutti in futuro o se sarà solo un modo per rendersi più autonoma (e sovrana) rispetto all’Europa.
A Bruxelles Meloni fatica a trovare alleati di peso e non fa mistero della sua idiosincrasia per le norme comunitarie. Anzi la rivendica.
Una cosa è il nazionalismo economico e un’altra è riconoscere le specificità del continente europeo, ha detto la premier nelle repliche alle comunicazioni al Senato in vista del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre.
«Dobbiamo lavorare per accrescere la competitività europea, anche immaginando dei giganti, lavorando per una maggiore integrazione su cui alcuni settori; quando abbiamo denunciato l’iper-regolamentazione lo abbiamo fatto perché rischia di danneggiare alcune economie.
Trasferire tutte le nostre competenze alla Commissione europea non ha funzionato», questo il Meloni pensiero.
Difficile darle torto nella sua parte finale.
Ma cosa accadrà al nostro paese se non funzionerà questo schema di riforma dal basso dell’Unione Europea che ha in mente la leader di FdI, il quale ruota attorno ad una revisione degli obiettivi del New Green Deal?
Per evitare l’isolamento a Bruxelles il Presidente del Consiglio potrà contare sugli amici americani che si sta curando più delle alleanze comunitarie in questi primi e difficili due anni di governo.
Ma quanto sarà disinteressata questa amicizia d’Oltreoceano?
Non sono più i tempi del piano Marshall, già più di trent’anni fa abbiamo avuto quelli del Britannia con la vendita forzata dei gioielli di famiglia.
La capacità di discernere tra aiuti, alleanze tra pari e voglia di saldi a buon mercato fornirà lo spessore politico di Meloni fuori le mura.
Più sarà consistente, maggiore sarà la sua resilienza alle turbolenze domestiche e alle richieste di Bruxelles.








