Surreale è l’unico aggettivo che descrive in maniera appropriata la discussione politico-giornalistica che accompagna i provvedimenti fiscali della Legge di Bilancio. In particolare, giovedì dopo l’audizione della Banca d’Italia giornali e politici di sinistra hanno utilizzato l’audizione per accusare la premier di favorire i ‘ricchi’ (e.g. contribuenti con redditi sopra 30 e sotto 200 mila euro).
Per tutta risposta gli organi di destra hanno a loro volta accusato la Banca d’Italia di partigianeria e di costituire una sorta di deep state (magari). Alcuni dietrologi hanno addirittura sostenuto che si tratti del tentativo del Governatore Panetta di dimostrare la sua indipendenza rispetto al Governo di destra che ne ha favorito l’insediamento.
Ma cosa ha detto Fabrizio Balassone in audizione per sollevare questo vespaio. Niente che chiunque abbia visto i provvedimenti non era in grado di anticipare. Ovvero che lo sgravio fiscale di 2 punti di IRPEF dello scaglione per redditi sopra 28mila euro sarebbe andato a beneficio dei contribuenti sopra 28mila euro.
Ma ha condito l’affermazione giustamente osservando che si tratta di una modalità, a mio parere discutibile, di parziale restituzione del fiscal drag, l’aumento automatico di imposta che si verifica quando per l’inflazione i redditi entrano automaticamente in scaglioni più alti.
Negli anni scorsi dopo l’episodio inflazionistico 2022-3, il Governo aveva ampiamente privilegiato la compensazione con vari mezzi per i redditi più bassi. Le osservazioni sulla distribuzione dei benefici sono quindi del tutto neutre ed anzi dal testo dell’audizione non traspare assolutamente il giudizio negativo su cui poi la stampa e la politica si sono accapigliate.
Addirittura testualmente: complessivamente le misure fin qui descritte non comportino variazioni significative della disuguaglianza nella distribuzione del reddito disponibile equivalente tra le famiglie.
Molto più problematico è stato invece il giudizio sul provvedimento di detassazione degli incrementi dovuti ai rinnovi contrattuali per redditi bassi che doveva ‘compensare’ per il favore ai ricchi, ma di cui nessuno discute.
La Legge di Bilancio infatti prevede che gli incrementi salariali dovuti a rinnovi contrattuali dell’anno prossimo siano tassati al 5% (come gli straordinari) fino a una soglia come sempre e quindi solo per i meno abbienti.
La razionalità di queste norme è davvero difficile da capire e si vanno ad aggiungere ad una congerie di trattamenti diversi che ormai rendono la nostra tassazione del reddito personale assolutamente ingiusta e alla fine anche disincentivante.
Non si capisce infatti perché una categoria il cui contratto è stato rinnovato nel 2025 dovrebbe essere tassata ad aliquota marginale e una che rinnova nel 2026 al 5%. Inoltre, non si vede come questo beneficio possa essere sottratto in seguito senza causare un effetto di impopolarità maggiore di quello ottenuto temporaneamente con la (di fatto) esenzione.
Infine, ci sono forti dubbi sulla applicabilità di questa norma: come attribuire incrementi salariali univocamente ai rinnovi contrattuali? E già che ci siamo anche il regime di favore sugli straordinari è un favore completamente assurdo, di certo non favorisce la produttività che solo in una concezione primitiva è il prodotto di più ore di lavoro.
Su queste critiche vere però la stampa non si è particolarmente appassionata, preferendo invece inventarsene di inesistenti. La svolta che però ha conferito il tono davvero surreale alla vicenda è stata l’introduzione della patrimoniale nel dibattito.
Ci vuole davvero del genio politico per proporre una nuova tassa dall’opposizione senza che nessuno vi abbia richiesto di farlo. Ricordiamo infatti che Mamdani ha risposto di voler aumentare le imposte sui ricchi solo quando incalzato su come avrebbe finanziato le stratosferiche promesse elettorali.
In Italia invece per alcuni la patrimoniale, che personalmente ritengo un buon modo di finanziare i nostri servizi, è un argomento da campagna elettorale in sé. Anche se bruciassimo in piazza il denaro.








